Reply: RI: Re: [pace] Nobel per la pace a Obama



perfettamente d'accordo, come già ho avuto modo di dire.
Ines



<----Messaggio originale:---->
Da:	Enrico Peyretti <pace-request at peacelink.it>
Inviato:	lunedì 12 ottobre 2009 9.16
A:      <pace at peacelink.it>
     disarmo peacelink <disarmo at peacelink.it>
Cc:     lorenzo_galbiati <lorenz.news at tele2.it>
Oggetto: Re: [pace] Nobel per la pace a Obama??

Inviterei a leggere l’editoriale di Barbara Spinelli di oggi su La Stampa,
più saggio, illuminato e drammatico di tutti gli altri commenti.

Enrico Peyretti




http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=6478&ID_sezione=&sezione=

saluto



      La Stampa 11.10.2009

      BARBARA SPINELLI

      La Stampa



      Adesso Barack Obama andrà in giro per il mondo con quel peso: che lo
premia in anticipo, lo lega, lo segna. Il comitato di Oslo non premia un’
azione, una carriera compiuta. Premia forze impalpabili eppure decisive come
la parola, la speranza suscitata, l’attesa che somiglia a un’enorme sete, il
valore attribuito da un leader all’imperio della legge e della Costituzione,
più forte di ogni convenienza. Ricompensa uno stile, un essere nel mondo che
non è in sintonia con il predominio americano e la sua dismisura, la sua
hybris nazionale. Siamo abituati a pensare che la speranza sia poco più di
uno scintillio ineffabile, essendo fatta di cose non avvenute, malferme.

      Siamo abituati a pensare che la parola, diversamente dall’atto, sia
fame di vento. Che ripensare la politica e le sue routine sia vano. Non è
così. Abbiamo solo dimenticato che la parola è tutto nei testi sacri che
fondano le civiltà, compresa la nostra. Per il Siracide, nella Bibbia,
«meglio scivolare sul pavimento che con la lingua», e «un uomo senza grazia
è pari a un discorso inopportuno».

      Da ora Obama porta questo fardello. Deve ancor più dar senso alla
parola, e in primo luogo tenerla. Lui stesso è parso colto da tremore, all’
annuncio. Era serio davanti al microfono, come Buster Keaton che non ride
mai. Faceva pensare a quei profeti o sentinelle turbati dall’appello, che
ammutoliscono o «hanno un gran bue sulla lingua», come nella Bibbia o nell’
Agamennone di Eschilo. Ha detto: «Onestamente non credo di meritarlo»,
intendendo che ancora non è divenuto quello che pure già è - una
transformative figure. La notizia lo ha «sorpreso e reso umile», nel Nobel
vede non una gratificazione ma una «chiamata all’azione». I premi mettono
sempre spavento. Se non lo mettono, più che chiamare lusingano.

      La parola che già oggi fa di Obama una figura trasformativa concerne
questioni essenziali: la coscienza che la solitaria superpotenza americana è
un’impotenza, se non cerca la cooperazione col mondo; l’ascolto dell’altro e
la mano tesa giudicati indispensabili, purché a essi non si opponga il pugno
che non s’apre. E ancora: inutile provare a fermare gli Stati aspiranti all’
atomica, quando il nucleare è l’unico passaporto di potenza e quando i
Grandi non cominciano da se stessi, riducendo i loro esorbitanti arsenali.
Anche questo cambiamento ha risonanze bibliche. Dice ancora il Siracide:
«Quando un empio maledice un avversario, maledice la propria psiche».
Inferni e assi del male non sono fuori: vedere anche in se stessi il male
che suscita caos è inizio di conversione e guarigione.

      Obama non fa discorsi facili, è un comunicatore ma non un
semplificatore: il suo discorso sulla razza, a Philadelphia il 18 marzo
2008, il discorso al Cairo del 4 giugno 2009 e quello del 17 maggio 2009 all
’università cattolica di Notre Dame in Indiana, il discorso infine su clima,
disarmo nucleare e multilateralismo, all’Onu il 23 settembre, non sono
lisci, non hanno due colori, uno puro e uno impuro. Neppure la chiusura di
Guantanamo è facile e ancor meno la rinuncia agli antimissili in Est Europa,
che mette fine alla strategia del divide et impera nel Vecchio Continente e
sicuramente urta il complesso militare-industriale Usa. Sono discorsi che
educano alla complessità, e a vedere le cose da più punti di vista, non uno
solo.

      I cambiamenti decisivi esordiscono così: dalla parola e dallo sguardo
su di sé. Non eravamo avvezzi a questo con i presidenti Bush, con Reagan e
Clinton. Paziente, ostinato, Obama tenta di far capire che la potenza Usa
non ha il destino manifesto che la mette sopra le altre e ne fa un’
eccezione, «città sulla collina» come nel messianesimo politico teorizzato
nell’800. Il punto da cui parte è il precipizio: il declino della supremazia
Usa dopo la fine dell’Urss, in politica ed economia; il dominio non solo
contestato ma inefficace. Come gli europei presero atto che la hybris
nazionalista aveva prodotto mostri, e dopo il ’45 escogitarono l’Unione per
recuperare in Europa le perdute sovranità nazionali, Obama scopre che
sovrano è chi può far seguire l’azione alla parola, non opera da solo,
calcola le conseguenze di quel che fa. A cominciare dalla guerre: quella
finita in Iraq, e quella che stenta a finire in Afghanistan. Anche qui il
Nobel è fardello. Difficile l’escalation chiesta dai militari, con un sacco
sì ingombrante da trascinare.

      Ma c’è anche qualcosa di conturbante nel Nobel, di ominoso. Il premio
è come dato in grande fretta, come se non vi fosse molto tempo e occorresse
lanciare un segnale subito. A circondare Obama infatti non ci sono solo
attese, speranze. C’è, sempre più acuta, un’immensa fragilità, se non un
pericolo che incombe. Thomas Friedman ha scritto un articolo impaurente, il
29 settembre sul New York Times. Racconta di un clima in America che non
tollera l’intruso, che trama tribali ordalie: che ricorda, tenebroso, l’
atmosfera in Israele prima dell’omicidio di Yitzhak Rabin. Rabin aveva preso
il Nobel con Arafat e Peres, nel ’94. L’anno successivo, il 4 novembre, il
colono estremista Ygal Amir l’uccise ma alle sue spalle c’era un’opposizione
che lo demonizzava da tempo, Netanyahu in testa con il Likud e molti
rabbini.

      Lo stesso sta avvenendo in America. Nei manifesti ostili e in numerosi
discorsi dell’opposizione e di giornalisti astiosi, Obama appare come un
alieno comunista, ma secondo l’analista Philip Kennicott è altra la colpa
che gli viene imputata: non il socialismo ma il suo essere afro-americano,
meticcio, dunque antiamericano (Washington Post 6-8-09). Su Facebook è
apparso un sondaggio che chiede se Obama debba o no essere ucciso. Con
risposte a scelta tra «sì-no-forse» e «sì, se taglia la sanità».

      Tutto questo il Presidente nero non l’ignora. Sappiamo che l’ha messo
in conto fin dalla candidatura. Ciononostante insiste: nel voler trasformare
il proprio paese, nel dire che da una specie di conversione urge
ricominciare. Per questo la parola è tanto importante: perché disturba,
scavando. Chi a Oslo ricompensa questa cocciutaggine sembra anche tremare
per la sua vita. Chi dice che il premio giunge troppo presto non sa quel che
dice e che accade, è cieco alla campagna di odio disseminata negli Stati
Uniti.

      Obama impersona l’America complicata, che diffida di sé. Non la
nazione di Bush che si compiace nel parlar perentorio e approssimativo, ma l
’America della grande contorta letteratura, della musica, del cinema, che
ragiona sottile e resuscita le parole di John Quincy Adams, il segretario di
Stato che nel 1821 dice: «L’America non si avventura nel mondo in cerca di
mostri da abbattere. Essa auspica la libertà, l’indipendenza di tutti. È
campionessa solo della propria libertà, indipendenza. Si batte per grandi
cause con la compostezza della sua parola e la benigna simpatia del suo
esempio. (...) Potrebbe divenire dittatore del mondo: non sarebbe più
padrona del proprio spirito».

      Obama dice spesso che la sua ascesa è frutto di americani come
Reinhold Niebuhr, un autore che stima per aver raccomandato al paese non il
messianesimo politico ma l’umile consapevolezza dei propri limiti. Solo una
cultura di questo genere poteva permeare le svolte del Presidente. Solo in
un’America simile, la discendente di un’adolescente schiava nera stuprata da
un padrone bianco poteva divenire first lady degli Stati Uniti.

      I gesti e la parole possono molto. Creano storie e cammini nuovi.
Willy Brandt che il 7 dicembre 1970 cade d’un tratto in ginocchio di fronte
al memoriale del ghetto distrutto di Varsavia non aveva ancora riconosciuto
la linea Oder-Neisse tra Germania e Polonia. Quel gesto cambiò tutto, prima
che lo scabro itinerario cominciasse. Così Obama a Philadelphia, al Cairo, a
Notre Dame, all'Onu.






----- Original Message ----- 
From: "lorenzo_galbiati" <lorenz.news at tele2.it>
To: <pace at peacelink.it>; "disarmo peacelink" <disarmo at peacelink.it>
Sent: Monday, October 12, 2009 1:21 AM
Subject: Re: [pace] Nobel per la pace a Obama??


> Il Nobel per la pace ha sempre avuto un valore etico alquanto basso quando
> assegnato a politici.
> In questo senso, Obama non è certo peggio dei suoi predecessori.
> Direi che possiamo assimilarlo a Gorbacev.
> Considerate che tra i nobel c'è un certo Shimon Peres, persona che più
volte
> si è macchiata di crimini contro l'umanità  e che, avendo ricevuto il
Nobel
> insieme a Rabin e Arafat (anche allora per vaghe concessioni mai
realizzate
> da Israele), qualche anno dopo faceva parte del governo israeliano che
> cercava di uccidere Arafat, recluso e nascosto nel suo quartier generale a
> Ramallah.
> Ma, dopo quasi un anno, Obama è ancora considerato bene in quanto nero e
per
> i suoi proclami. Tutto di grande valore simbolico. Bene, ma alla gente che
> muore uccisa non interessano tanto i simboli.
> Lorenzo
>
> ----- Original Message ----- 
> From: "Marta Zecchetto" <martanornuv at yahoo.it>
> To: "pace peacelink" <pace at peacelink.it>; "disarmo peacelink"
> <disarmo at peacelink.it>
> Sent: Saturday, October 10, 2009 12:12 PM
> Subject: [pace] Nobel per la pace a Obama??
>
>
> > Se per ottenere il Premio Nobel per la pace è necessario costruire nuove
> > basi militari – come a Vicenza – o far strage di civili – come è
avvenuto
> > nell’ultimo anno in Afganistan, più volte – allora il riconoscimento ha
un
> > valore etico e morale molto basso.
> >
> > Il presidente statunitense Obama è stato insignito di questo premio per
i
> > suoi discorsi; come se le parole potessero cambiare la vita di chi
subisce
> > quotidianamente la guerra o la presenza delle sue strutture devastanti.
> >
> > Quantomeno, ci aspettiamo che Obama provi a meritarsi a posteriori il
> > Premio Nobel per la pace: far cessare le stragi di guerra e
smilitarizzare
> > il mondo – chiudendo le mille bassi militari tra cui quella di Vicenza –
> > potrebbe essere un primo passo.
> > venerdì 9 ottobre 2009  Presidio Permanente No Dal Molin
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