[Diritti] Andy Rocchelli - Ultimo fronte



L'AVVENIRE DEI LAVORATORI

La più antica testata della sinistra italiana, www.avvenirelavoratori.eu

Organo della F.S.I.S., centro socialista italiano all'estero, fondato nel 1894

Sede: Società Cooperativa Italiana - Casella 8965 - CH 8036 Zurigo

Direttore: Andrea Ermano

 

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e-Settimanale - inviato oggi a oltre 50mila utenti Zurigo, 23 novembre 2017

    

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Letzte Front

 

Vernissage della mostra dedicata alla vita

e all'opera di Andy Rocchelli (1983-2014)

 

O G G I  > 23 novembre - ore 18.00

Photobastei - Sihlquai 125 - 8005 Zürich

 

Intervengono: Miklós Klaus Rózsa (Syndicom, fotografo, curatore della mostra), On. Beppe Giulietti (Presidente Federazione Nazionale Stampa Italiana), Giangi Cretti (Direttore Comunicazione Camera Commercio Italiana per la Svizzera).

 

Ingresso libero.

Orari di apertura: lunedì-sabato 12-21; domenica 12-18.

Info: +41 44 2414475 - www.photobastei.ch - cooperativo at bluewin.ch

 

Organizzano: Camera di Commercio Italiana per la Svizzera, Collettivo Cesura, Fabbrica di Zurigo, Famiglia Rocchelli, Fondo Gelpi Ecap Schweiz, Photobastei, Società Cooperativa Italiana, Società Dante Alighieri, Syndicom Schweiz. Con il patrocinio dell'Istituto Italiano di Cultura Zurigo e della Camera di Commercio Italiana per la Svizzera

 

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Conformemente alla Legge 675/1996 tutti i recapiti dell'ADL Newsletter sono utilizzati in copia nascosta. Ai sensi del Codice sulla privacy (D.L. 30.6.2003, 196, Art. 13) rendiamo noto che gli indirizzi della nostra mailing list provengono da richieste d'iscrizione, da fonti di pubblico dominio o da E-mail ricevute. La nostra attività d'informazione politica, economica e culturale è svolta senza scopi di lucro e non necessita di "consenso preventivo" rivestendo un evidente carattere pubblico come pure un legittimo interesse associativo (D.L. 30.6.2003, 196, Art. 24).

    L'AVVENIRE DEI LAVORATORI contribuisce da 120 anni a tenere vivo l'uso della nostra lingua presso le comunità italiane nel mondo tra quelle persone che si sentono partecipi degli ideali socialisti-democratici di Giustizia e Libertà.

   

     

EDITORIALE

 

Due mesi, venti

anni e un secolo

 

di Andrea Ermano

 

Questa settimana la rubrica "Freschi di stampa" deve prendersi una pausa perché sull'ADL del 15 settembre 1917, di cui ci apprestiamo a occuparci, c'è l'editoriale autoreferenziale che parla della fondazione di questa testata stessa.

 

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«Il 18 Settembre 1897 usciva il primo numero del settimanale "Il Socialista" organo dei socialisti italiani nella Svizzera, il settimanale che col 1. Luglio 1899 prese il nome che ancora oggi vive: "L'Av­ve­nire del Lavoratore". / Venti anni di vita. Venti anni di lotte. Venti anni di battaglie. Quanta strada percorsa, quanti ostacoli superati, quanta ricchezza di entusiasmi, quante energie socialiste fatte vibrare nelle pagine del nostro settimanale ed accese in ogni angolo della Svizzera. / I vecchi compagni ricorderanno il passato di angosce, di spasimi, di speranze, di vibrazioni entusiastiche, e si stringeranno di più intorno al nostro battagliero giornale. I compagni venuti dopo, giunti da poco, che ne sanno le nobilissime tradizioni, che lo amano di già come una propria creatura, si stringano intorno a questa lucente arma delle nostre battaglie ideali, e le diano il fuoco dei loro giovani anni, l'ardore e la fede del loro ideale. / Ora e sempre. Con indo­ma­bile tenacia, con immutabile amore.»

 

Fin qui l'editoriale del 15.9.1917, intitolato «Venti anni». Oggi, a due mesi, venti anni e un secolo dalla fondazione della nostra testata – che del 1944 si chiama "L'Avvenire dei lavoratori" – desta in noi stessi qualche stupore il fatto che, in un modo o nell'altro, ci siamo ancora. E sabato 18 novembre abbiamo festeggiato l'evento in una giornata di studi e dibattiti, tenutasi nel tradizionale luogo d'incontro Cooperativo.

    Non sono mancate le "vibrazioni entusiastiche", il "fuoco delle battaglie ideali" e tutta l'inconfondibile atmosfera di sentimento e d'intelletto, di "rosso antico" e di vino rosso, di cui parlava Dario Robbiani quando parlava del socialismo italiano.

    E nemmeno sull'"immutabile amore" è mancata, in questo 2017, qualche riflessione non ovvia: «L'amore è moto af­fer­mativo verso la persona o la cosa amata», ha detto il vecchio filosofo tedesco Helmut Holzhey in un discorso che, insieme alla testimonianza di Beppino Englaro, ha rappresentato senza dubbio uno dei momenti più alti della giornata.  

 

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Il filosofo Helmut Holzhey

 

La filosofia – quella ai vertici dell'eccellenza accademica di Helmut Holzhey e quella ai vertici del coraggio civile di Beppino Englaro – non era certo sottorappresentata, nella mani­festazione per il 120° del­l'ADL. Lo ha notato con una punta d'ironia lo storico del socialismo Pao­lo Bagnoli ("Anch'io ho studiato filosofia, compagni!") nel corso del­la sua cavalcata ùssara sullo stato dell'arte della sinistra italiana a un quarto di secolo dalla fine della Prima repubblica.

    Per Renzo Tondo è stata la prima "uscita pubblica" sui fatti dramma­tici che lo videro co-prota­go­ni­sta del "Caso Englaro". Al­l'e­pilogo del 2009, Tondo, nella sua veste di Go­ver­na­tore del Friuli Venezia-Giulia, assunse su di sé con coraggio, senza chiasso, in modo rigorosamente istituzionale, il com­pito di accogliere la richiesta di diritto che la fa­mi­glia Englaro si ve­deva altrove negata. Tutto si svolse in un clima che oggi non è più neppure immaginabile, dopo la presa di posizione di Papa Francesco contro l'accanimento te­ra­peutico.

    Beppino Englaro ha avuto il coraggio civile di domandare pub­bli­camente che cosa era rimasto sotto la "violenza terapeutica" cui veniva sottoposto da diciassette anni il corpo martoriato di sua figlia. Non ha risolto quella do­manda varcando di pochi chilometri il confine italo-svizzero. Ha pre­teso che la Giustizia italiana dicesse se in quella stanza d'ospe­dale po­teva esserci ancora una persona vivente di nome Eluana, o se ormai quel corpo martoriato non era più altro che l'ostaggio di un di­spo­sitivo clinico senza nome.

    Se all'epoca Englaro avesse scelto di risolvere il problema varcando "prag­maticamente" la frontiera, oggi il dibattito civile sul fine-vita non sarebbe approdato al Senato della Repubblica, che ha la pos­sibilità di approvare una legge su cui concorda la maggior parte de­gli italiani.

 

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Renzo Tondo, Giangi Cretti e Beppino Englaro

 

È ormai lontano il clamore delle polemiche di quei mesi e giorni di otto anni fa. Ma per chi volesse richiamarne la memoria, c'è la Bella Addor­mentata, film pluripremiato di Marco Bellocchio, con Isabelle Huppert, Toni Servillo, Alba Rohrwacher, Pier Giorgio Bellocchio, Maya Sansa, Roberto Herlitzka e altri ancora.

    Il cinema. Il cinema, che sul piano dell'esperienza culturale è stato anzitutto e prima di tutto l'irruzione del volto umano nella sua prossimità più (apparentemente) prossima, mobile e viva e vitale. Quando il cinema non c'era, non c'era nemmeno questo volto iper-drammatico, non c'era nella pittura né nel teatro e nemmeno nella quotidianità. Il volto "è" la settima arte, a partire dal cinema muto, come ha evidenziato Mattia Lento. E dopo di lui Viviana Meschesi ha ripreso il tema del volto nel pensiero etico di Emmanuel Levinas, uno dei grandi pensatori della tradizione ebraica novecentesca. Il volto che guarda, parla, ascolta ecc. – manifesta l'esserci di una per­sona, la sua dignità. Secondo una celebre formula siloniana, è socialismo lo stare sempre dalla parte di questa dignità, contro ogni tentativo di ridurre gli uomini a funzioni in una spirale di strumentalità "ottimizzatrice" alla cui critica si dedicato Giovanni Battista Demarta contestando la trappola di una economia non-umana anche nel campo accademico.

    Notevole la sensibilità e la preparazione dei mo­deratori Giangi Cretti, decano dei giornalisti italiani in Svizzera, e Francesco Papagni, teologo e giornalista svizzero con radici veneto-toscane. Davvero incredibile la competenza politico-giuridica e la passione civile di Felice Besostri, l'avvocato socialista al quale il popolo italiano deve la bocciatura del Porcellum e del­l'Ita­li­cum di fronte alla Corte Costi­tu­zionale. Molto erudite le con­siderazioni di Pierfrancesco Fiorato, do­cen­te a Sassari, che ha coinvolto il pubblico in uno sforzo di com­pren­sione delle sottigliezze di scuola neo-kantiana.

    La filosofia. Ma non era morta? E non s'è trattato di una scelta bizzarra voler celebrare con tanto nutrito ingrediente teorico la festa dedicata a un vecchio settimanale di lavoratori emigrati?

    Domanda legittima. Vorrei tentare qui una breve ri­spo­sta. E pro­porrei di partire dal Comune di Firenze. Che oggi non è più la media potenza europea dell'età uma­ni­stica, ai tempi di Dante o di Guic­ciar­dini. Oggi parte importante delle que­stioni col­le­ga­te alla vita e ai beni dei Fiorentini presuppone l'esi­sten­za dello Stato ita­liano, il quale a sua volta "è" nel quadro del­l'U­nio­ne Europea. L'Eu­ro­pa però (con circa l'8% della popolazione mon­diale) dipende a sua volta dalla situazione globale, non solo fi­nanziaria, ma anche geo-stra­tegica, demografica, alimentare, climatica ecc. Per non parlare della transizione bio­tec­no­lo­gi­ca in senso post-umano. Questi i fatti.

 

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Una scena ospedaliera della Bella Addormentata (2012) di

Marco Bellocchio – Maya Sansa pensa pensieri impensabili.

 

C'è qualcuno – una chiesa, uno stato, una grande impresa multina­zio­nale, un'internazionale socialista – che abbia proposte credibili in tema di governo globale? Si sa di saggi e di studi, ma non si sa nulla di pro­getti con­creti e cre­dibili. Altrimenti, se una proposta ci fosse, do­vrem­mo averne un minimo di notizia, a meno che qualcuno non pensi di go­vernare diversi miliardi di persone a loro insaputa.

    Senza una concreta e credibile prospettiva di governabilità in rap­por­to alla dinamica dei processi globali in atto, la parola "politica" non ha senso. Ciascuno dei processi globali, infatti, basta da solo a mi­nac­­ciare la vita e i beni di ciascun singolo essere umano su questo pianeta.

    Ma la stessa parola "essere umano"… Che cosa significa "essere umano", senza politica? Non s'intendeva l'uomo come quell'animale che vive nella polis? Se non c'è politica, se non c'è una possibilità di com­piere scelte "politiche", anche l'idea stessa di umano, di umane­si­mo ecc. – tutto entra in una grande oscillazione.

    Ecco, dunque, il problema della "politica" (e dell'umanesimo) oggi. Pro­­ble­ma che non può essere affrontato senza fornirne anzitutto una qualche impostazione teorica.

    Di qui l'ingrediente filosofico nel 120° del­l'ADL, entrato non per snaturare l'evento in senso scolastico,  ma per­ché l'ADL (e certo non solo l'ADL) non potrà continuare a svolgere seriamente le proprie at­tività se non saprà incamminarsi verso una teoria e una prassi plau­sibili in rapporto al problema della "politica" (e dell'umanesimo).

       

      

Oggi inaugurazione della mostra su Andy Rocchelli

 

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Andy Rocchelli, Una cantina-rifugio a Sloviansk (2014)

 

DISCORSO PER MIO FIGLIO

 

In occasione dell’inaugurazione della mostra fotografica dedicata alla vita e all’opera di Andrea “Andy” Rocchelli (1983-2014) tenuto a Zurigo il 5.6.2016.

 

di Elisa Signori

 

Sono stata più volte qui Zurigo a discutere di sto­ria del Novecento, di antifascismo all’estero, di emi­grazione italiana, di Resistenza, ma non avrei mai detto che un giorno mi sarebbe capi­ta­to di tro­varmici per parlare di fotografie e di un foto­gra­fo uc­ciso due anni fa in Ucraina, mio fi­glio Andrea Roc­chelli. Armato solo della sua mac­­china foto­grafica Andrea e il suo amico rus­so, Andrej Miro­nov, sono stati bersaglio di un lun­go attacco con i mor­tai a Sloviansk nell’Ucrai­na nordorientale nel pomeriggio del 24 maggio 2014.

    Quando è successo abbiamo avuto molti segni di solidarietà e tra questi indimenticabile un mes­sag­gio degli amici del Coopi che ci ha confortato e aiu­tato. Alla gratitudine di allora si somma que­sta di oggi per un’iniziativa che vuole insieme le­gare il problema della libertà dell’informazione e della qualità del linguaggio fotografico alla vicen­da e all’opera di mio figlio. Grazie, dunque, di cuo­re a tutti coloro che hanno voluto que­sto in­con­­tro e che progettano di far conoscere le storie per immagini che mio figlio ha voluto raccontare.

    Parliamo dunque di fotografia. Non sono un cri­ti­co fotografico, ma ho visto da vicino il modo di An­drea di essere un fotografo e posso cercare di spie­garlo. Molte tematiche d’interesse coltivate in parallelo, molti, continui viaggi per andare vi­ci­no, molto vicino a vedere e capire quanto av­ve­ni­va: fenomeni di costume in Italia – il velini­smo – fe­no­me­ni di sfruttamento – i migranti in Ca­labria – la mer­cificazione dell’identità fem­mi­ni­le – con­cor­si di bellezza agganciati a ideologie po­litiche, miss Padania – ma poi rivoluzioni, guer­re, per­se­cu­zioni. I luoghi: la Libia e la Tu­ni­sia della pri­mavera ara­ba, l’Afghanistan, e poi l’Est Europa, Ce­cenia, Da­ge­stan, Inguscezia, Kir­ghi­zistan, Mo­sca, l’eredità dell’implosione del­l’Urss. Scenari dram­matici che Andrea indagava con uno sguardo par­tecipe, dal­l’in­terno. Non solo scatti da reporter di guerra, non solo cronaca in presa diretta, ma sto­rie di uomini e donne che quel­la guerra, rivo­lu­zio­ne, persecuzione vivevano. In qualche modo la vio­lenza più che esi­bi­ta in sé era riflessa nella di­men­sione del­l’esi­sten­za, del­l’e­spe­rienza in­di­viduale e collettiva.

    Per mantenersi in questi viaggi lavorava per ONG o aveva strategie fantasiose. Come in Rus­sia quando si inventò come fotografo a domicilio e raccolse un’antologia di ritratti femminili sullo sfondo degli ambienti domestici scelti dalle stesse donne fotografate. Tutto era nato dall’incontro simpatetico tra Andrea e molte giovani e meno giovani donne russe, desiderose di avere un bel ritratto, per ragioni e necessità diverse. Scatti a prezzo contenuto, realizzati direttamente a casa, sono stati l’occasione di una esplorazione del­l’u­ni­verso femminile che ha poi assunto gra­dual­mente la valenza di una ricerca antropologica. Vol­ti e contesti, gesti e sguardi, tessuti e arredi compongono un mosaico di atmosfere private e parlano linguaggi di confidente intimità. Ogni scatto coglie il soggetto in una posa spontanea, liberamente assunta mentre racconta al fotografo della propria vita. E gli interni diventano la chia­ve per interpretare le aspirazioni di chi li vive, li ha scelti o li subisce. I motivi cromatici e gli at­tributi tattili degli oggetti arricchiscono ogni scena come quinte teatrali e le pagine si aprono come sipari a svelare, e a nascondere, sogni, am­bizioni, solitu­di­ni. Ne è uscito un libro Russian Interiors, ap­par­so ahimè postumo e le foto sono state premiate dal World Press Photo 2015.

    In Ucraina nel febbraio 2014 si è trovato a do­cu­mentare la cosiddetta “rivoluzione della di­gni­tà” di Maidan, ha vissuto con i manifestanti, li ha ri­tratti, uomini e donne di tutti i ceti, armati con ar­nesi da scontro medioevale, ha colto la rab­bio­sa rea­zione della polizia, le violenze, fino a tro­varsi tra i primi all’epilogo, il vuoto di potere creatosi al vertice con la fuga dell’establishment.

    E in Ucraina è voluto tornare qualche mese più tar­di: insieme al suo amico Andrej Mironov, rus­so, attivista dei diritti umani, raccoglievano te­sti­mo­nianze sulla vita della popolazione civile, li in­ter­vistavano, li ritraevano. La serie dei bunker è l’e­redità di quei giorni: la guerra è raccontata at­tra­verso le immagini dei bambini rifugiati nei bun­­ker, stipati tra i vasi di sottaceti e di mar­mel­la­te, terrorizzati dai bombardamenti notturni, dal­la per­dita dei genitori o dei fratelli colpiti negli at­tac­chi.

    Ave­vano dei lasciapassare e Andrea fotogra­fa­va postazioni e trincee che facevano pensare alla guerra di un secolo fa, registrava le parole di chi narrava come il conflitto li avesse sorpresi ignari ed estranei, una guerra voluta altrove, da qualcun altro. La retorica della guerra patriottica contro i separatisti s’infrangeva di fronte alle sofferenze di chi della guerra era solo una vittima. Mi disse che stava seguendo la storia di due ragazzi amici sin dall’infanzia che la guerra aveva trasformato in nemici schierati su fronti opposti, pronti a darsi vicendevolmente la morte. Non ho mai visto le im­magini di questa storia.

        Cosa è successo il 24 maggio 2014 ormai lo sappiamo. L’alibi della guerra ai confini ha sin qui consentito alle autorità ucraine una strategia elusiva e a tutt’oggi non si dispone nemmeno di una versione ufficiale dell’accaduto. Ma le dichia­ra­zioni rese dai testimoni oculari sopravvissuti – del gruppo si è salvato un giovane fotografo e il taxista – i dati emersi – luogo / ora –, le tracce rac­colte da giornalisti scrupolosi e impegnati la­sciano pochi dubbi sulla dinamica fattuale e sulle responsabilità, mentre resta ignota la ragione del­l’at­tacco contro giornalisti inermi, come pure la ca­tena di comando che ha scatenato l’attacco con­tro di loro. Non sono incappati in una scara­muccia tra postazioni nemiche, ma armati solo delle loro macchine fotografiche sono stati og­get­to di un fuoco accanito e metodico. Ciò che è accaduto a Andrea Rocchelli è parte di un’ampia casistica, di cui vorrei sottolineare due aspetti.

    È entrata nell’uso la parola freelance per indi­ca­re chi come lui girava il mondo senza rete pro­tettiva e senza un contratto fisso con una testata o una rete tv, ma la parola che fa perno sul con­cetto di libertà è fuorviante. Tutti i fotografi sono stati a for­za spinti nello status di free lance dalla ri­vo­lu­zione digitale che ha cambiato il mondo del­la stam­pa e ha destrutturato la loro professio­ne: le te­state hanno budget ridotti, usano foto di re­per­torio, lavorano in velocità, acquistano le fo­to che i fotografi propongono ma non li as­su­mono, non esiste più la partnership giornali­sta-fo­tografo che nei decenni ha scritto la storia del giornalismo e fotogiornalismo nel mondo. Per questo Andrea aveva fondato con altri foto­grafi il collettivo au­to­no­mo Cesura, con l’ambizio­ne del­l’indipendenza e l’obiettivo di affermarsi grazie a un lavoro ben fatto. Una strada ardua e co­rag­giosa percorsa col­ti­vando un’idea alta e etica­mente impegnativa del lavoro di testimo­nian­za e di informazione, ben lon­tana e diversa dalla su­perficialità stereotipata che ci è offerta dai media.

    L’altra considerazione riguarda l’incolumità dei giornalisti e foto­gra­­fi . Non è un caso che ven­ga­no rapiti, siano uccisi selettiva­men­te nei contesti di dittature, di guerre, di vio­lenze. Guerre ano­ma­le, non convenzionali e asim­me­triche si mol­ti­pli­cano nel mondo del terzo mil­lennio.

    La terza commissione dell’Assemblea Generale dell’Onu, quella sui diritti umani, ha approvato il 29 novembre 2013 all’unanimità una risoluzione sulla sicurezza dei giornalisti e ha istituito il 2 no­vembre come Giornata internazionale per porre fine all’impunità dei crimini contro i giornalisti.

    Quando si creano giornate per qualcosa è segno che la situazione è incontrollabile e infatti l’esca­la­tion delle morti di fotografi e giornalisti con­ti­nua, segnalata dai bollettini di Reporter sans fron­tiè­res. Nel febbraio 2012 ricordo che Andrea andò a Parigi a intervistare la compagna del fotografo fran­cese Remi Ochlik, 28 anni, ucciso da un bom­bar­damento selettivo a Homs in Siria. Vidi la re­gi­strazione di quell’incontro, da cui emergeva il fat­to che la casa dove erano Ochlik e i suoi col­le­ghi, tra cui un’americana, lei pure uccisa, era nel mi­rino dei bombardamenti, era un obiettivo messo a fuoco con cura. I testimoni indipendenti, ter­mi­na­zioni del mondo libero esterno, dovevano es­se­re annientati e così è stato. Una sorta di presagio, che mi è tornato in mente due anni più tardi. Ma quando si sparano cannonate contro i giornalisti si spara contro la nostra libertà di informazione, con­tro il nostro diritto di sapere e capire cosa suc­ce­de.

    Un fotografo, un giornalista che muore è una voce libera che si spegne, uno sguardo attento e coraggioso che ci viene tolto, che non andrà più per noi a documentare e a raccontare con le im­ma­gini la complessità del reale. Senza di loro sia­mo più indifesi di fronte alle manipolazioni del po­tere, agli stereotipi, alle ricostruzioni artefatte degli attori interessati. Non possiamo guardare a queste morti come a effetti collaterali e normali dei conflitti. Gli antichi dicevano de re nostra agitur: si tratta di noi.

          

    

FONDAZIONE NENNI

http://fondazionenenni.wordpress.com/

 

Missione di Benvenuto in Svezia

 

Il vertice sociale di Göteborg e gli incontri a Stoccolma

 

di Marco Zeppieri

 

Cogliendo l’occasione del vertice sociale di Gotebörg, una delegazione della fondazione Pietro Nenni, guidata da Giorgio Benvenuto, ha avuto a Stoccolma, il 20 novembre, incontri di lavoro con la fondazione Olof Palme e il sindacato LO, nelle rispettive sedi. Ambedue sono stati di grande cordialità e amicizia, e costituiscono la base per ulteriori sviluppi.

    Nei colloqui, sono stati valutati i risultati del vertice sociale, ritenuto dagli interlocutori svedesi un primo passo verso un maggiore impegno Ue sulle politiche sociali.

    Con il sindacato, rappresentato da Hans Forsberg responsabile contratti di lavoro e negoziati, e da Sebastian de Toro responsabile del settore Economia, sono state esaminate le situazioni sociali e salariali e lo stato delle relazioni sindacali nei due paesi. La fondazione Nenni e LO torneranno ad incontrarsi a Roma nei prossimi mesi per avviare una collaborazione bilaterale strutturata sui temi del lavoro e delle condizioni sociali urbane, aperta alle forze sindacali italiane.

    La fondazione Olof Palme era rappresentata dal presidente Pierre Schori, Lisa Pelling capo sezione ricerca in Arenagruppen, Anna Sundström segretario generale di Olof Palme Global Centre, Mikael Nilsson rappresentante di LO presso la fondazione. E’ stata fatta l’analisi approfondita della situazione di Feps, la Fondazione europea degli studi progressisti alla quale ambedue le organizzazioni appartengono. La fondazione Palme ha espresso la disponibilità a portare avanti progetti con la fondazione Nenni sia in Feps che a livello bilaterale, in particolare sui temi delle immigrazioni, delle politiche sociali, della ricerca storica sui rapporti tra socialdemocrazia svedese e socialismo italiano con un occhio specifico alle figure storiche di Olof Palme e Pietro Nenni.

 

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All’interno della fitta agenda di contatti politici e sindacali che la fondazione Nenni sta stringendo in questi giorni a Stoccolma, il presidente Giorgio Benvenuto ha incontrato tre esponenti della commissione lavoro del Riksdag, il parlamento svedese: Ali Esbati della sinistra, Fredrik Christensson del centro e Patrik Bjorck esponente socialdemocratico (foto).

    Accompagnato dall’ambasciatore italiano a Stoccolma, Mario Cospito, il senatore Benvenuto ha illustrato la situazione italiana del mondo del lavoro e ha ascoltato il breve rapporto su come il parlamento svedese stia operando per integrare i rifugiati e  rendere più eque le retribuzioni di chi svolge pari mansioni.

    I parlamentari hanno accettato l’invito ad essere parte del tavolo di confronto che la fondazione Nenni si appresta ad aprire con LO sulla questione sociale europea, condividendone gli obiettivi.

    Prima di incontrare i parlamentari, la delegazione italiana aveva fatto visita a Robert Anders, direttore generale della politica energetica dello stato svedese, che prenderà parte alla conferenza internazionale che la fondazione Nenni sta organizzando sulla transizione energetica e le sue conseguenze geopolitiche.

      

    

SPIGOLATURE

 

Argine quanto mai fragile al populismo

 

di Renzo Balmelli

 

VISIONE. Doveva essere una mini prova generale dei prossimi ap­pun­tamenti con le urne, e così è stato. Con la sinistra grande e inspie­ga­bile assente, la turbolenta elezione del sindaco di Ostia, che premia ben al di la dei suoi meriti la mutevole pattuglia grillina, prefigura un quadro politico tutt'altro che rassicurante per l'intero Paese. Dopo la Sicilia, dopo l'inaudita aggressione a un giornalista, dopo la beffa inconcepibile dell'Agenzia europea dei farmaci fonte di nuove ama­rez­ze, il microcosmo della inquieta località balneare, drogata dal­l'as­sen­teismo, diventa la visione di quanto potrebbe accadere tra qualche mese nel clima carico di tensioni e incognite che precede le elezioni nazionali. Se nella circostanza Casa Pound, almeno questo, è rimasta ferma al palo, è tuttavia prematuro parlare di scampato pericolo. Perdurando il disagio e la rassegnazione dell'opinione pubblica sempre più delusa dalla governance incolore ed inefficace degli ultimi anni, l'argine che si vorrebbe porre al minaccioso populismo di estrema destra risulta quanto mai fragile.

 

OCA. Fuori giuoco nel litorale romano, non è che la sinistra, sempre prigioniera del demone delle divisioni e delle faide interne, stia brillando ad altri livelli. Di questo passo pare piuttosto condannata all'inesorabile destino del tanto peggio, tanto meglio che lascia dietro di sé soltanto macerie. E a questo punto nemmeno Freud saprebbe trovare il bandolo della matassa. Tutto oro che cola per Berlusconi tornato in auge sulle prime pagine dei rotocalchi rosa per via degli alimenti da versare all'ex moglie. Nel curioso mélange di gossip e vecchi trucchi, l'ex cavaliere, a dire il vero senza incontrare molte resistenze, medita, Strasburgo permettendo, di cavare dal logoro cilindro le scontate magie d'antan, che potrebbero riportarlo alla casella di partenza del suo personale gioco dell'oca. Basti pensare che si è persino inventato il ministero della terza età per fare colpo sull'elet­to­rato più disorientato che mai. E potrebbe pure riuscirci assieme ai compagni di merenda se nella generale confusione non si farà nulla per scongiurar il rischio di riconsegnare il Paese a chi l'ha rovinato.

 

INCERTEZZA. Quando vacillano anche i bastioni più solidi come generalmente veniva giudicata la Germania, c'è poco da stare allegri. Se il caldo sole della Giamaica non è riuscito a diradare la plumbea cappa di nebbia che avvolge la porta di Brandeburgo e se nel cielo sopra Berlino, fallito il tentativo di dare vita a una coalizione caraibica tanto pittoresca quanto fantasiosa, cominciano a circolare termini come Verunsicherung, ossia incertezza, c'è motivo di preoccuparsi per la tenuta del Paese, fin qui incrollabile assertore della stabilità. Tanto più che l'estrema destra, ormai terza forza politica a nord del Reno, potrebbe uscire vincitrice dal collasso delle trattative e dall'eventuale ricorso alle elezioni anticipate. Un malinconico detto francese sostiene che tout casse, tout passe, tout lasse ("Tutto si rompe, tutto passa, tutto va"), ma aggiunge che il n'est rien e tout se remplace ("Nulla c'è, tutto si rimpiazza"). Resta da stabilire se i tedeschi, oltre che stanchi, siano davvero disposti a rimpiazzare Angela Merkel e con chi. Ma soprat­tut­to a che prezzo sia per la Repubblica federale che per l'Europa.

 

ROBOT. A volte capita che la realtà superi la fantasia e renda plausibili gli scenari descritti e anticipati dagli autori di fantascienza. In questo campo, che apre prospettive infinite e ancora in gran parte da esplorare, c'è già chi profetizza una svolta epocale nel campo delle tecnologie più avanzate che porterà enormi benefici a tutta l'umanità. Protagonisti della rivoluzione nonché di congressi e mostre a non finire sono i robot di nuova generazione che stanno compiendo molti passi avanti in questa direzione negli ultimi anni. Il primo a sdoganarli per cancellare le diffidenze e renderli più simpatici era stato Isaac Asimov, caustico scrittore di origine sovietica, che nell'interazione tra genere umano, i robot e la morale, intravvedeva lo strumento in grado di alleviare le fatiche dell'uomo durante il suo percorso esistenziale. In questo campo la scelta non manca e sarà maggiore in futuro, ma sulla convivenza tra l'omino d'acciaio e quello in carne ed ossa sussistono ancora riserve di tipo filosofico che tengono vivo il dibattito e ne mettono in discussione l'opportunità sociale oltre che culturale.

 

CORAGGIO. È in edicola la nuova Repubblica e parafrasando Fabri­zio De André verrebbe da dire che ci vuole coraggio, tanto coraggio, per varare una iniziativa di tale ampiezza editoriale e giornalistica men­tre le testate tradizionali un po' ovunque stanno attraversando un fase critica segnata dal riflusso dei lettori. Ormai, inutile girarci attor­no, sempre meno persone leggono più i quotidiani. Lo sanno tutti che la maggior parte di chi è interessato va a cercarsi le informazioni su altri vettori di facile e immediato accesso e consumo. Come quaran­t'an­ni fa, quando Eugenio Scalfari seminò il germe dell'innovazione, anche ora la redazione si accinge a raccogliere questa sfida epocale per restare al passo coi tempi e con la sua storia nell'Italia che è cambiata, così com'è cambiato – leggiamo nella presentazione – il ritmo dei fatti, il tempo della loro narrazione e il modo di raccontarli. Con questa ini­zia­tiva, che richiederà non pochi sforzi ai timonieri della navigazio­ne car­tacea, si aprono nuove prospettive per intercettare attraverso gli ap­pro­fondimenti le mutazioni, i desideri e le inquietudini di un'epoca che non ha – citiamo – risposte semplici a problemi sempre più complessi. In tal senso formuliamo i migliori auguri ai colleghi di Repubblica.

 

          

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.rassegna.it

 

Camusso: «Sulle pensioni distanze enormi»

 

Il segretario generale Cgil torna sulla rottura del tavolo con il governo: “Non è vero che diciamo sempre no, il sistema deve dare certezze a tutti, ora solo storture e ingiustizie. Valuteremo eventuali iniziative di protesta successive al 2 dicembre"

 

“Non è vero che diciamo sempre no. Abbiamo anche fatto recentemente un accordo col governo sui contratti pubblici. Sulle pensioni, invece, c'è una distanza di impianto”. Con queste parole Susanna Camusso torna sulla rottura col governo al tavolo sulle pensioni. Lo ha fatto ieri, ai microfoni di “Radio Anch'io” di Radio1.

    “Il sistema previdenziale – ha detto ancora il segretario generale della Cgil – deve dare certezze a tutti, mentre la condizione attuale determina storture e ingiustizie”. Il no della Cgil alle proposte del governo, dunque, è un no a un “sistema profondamente ingiusto per i giovani e peraltro molto costoso”.

    Per il sindacato di corso d'Italia, infatti, la proposta del governo si muove ancora per deroghe, per piccoli interventi, e questo rende incerto il sistema previdenziale. Camusso, nella conferenza stampa appena successiva al tavolo del 21 novembre, aveva anche rimarcato “la significativa distanza tra le proposte fatte e gli impegni assunti dal governo col documento del 2016” e l'assenza di “risposte sufficienti sulla pensione dei giovani, sulle donne, sul sistema previdenziale legato all'aspettativa di vita”. Nonché “troppo poca attenzione ai temi del lavoro”.

    Susanna Camusso oggi ha invece ricordato i dati recentemente forniti dalla confederazione di corso d'Italia in un'analisi effettuata dall’ufficio previdenza, secondo i quali “la platea toccata dall’accordo proposto dall'esecutivo supera appena i 4 mila interessati”.

    “Non siamo il braccio di Mdp”, ha poi detto la sindacalista in risposta ad alcune analisi politiche apparse questa mattina sui giornali. Le scelte della Cgil, al contrario, non presentano una “lettura politica”. “Ci occupiamo solo dei lavoratori – ha detto – che ci dicono ‘non ce la facciamo più'”.

    Riguardo alla mobilitazione annunciata dal sindacato per il 2 dicembre, Camusso ha concluso affermando: “Valuteremo eventualmente altre forme di protesta successive a quella data”.

   

          

Da Avanti! online

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Ottobre Rosso e dintorni

 

di Nicola Zoller

 

Vorrei dire al presidente del Consiglio provinciale di Trento Bruno Dorigatti – e a tanti altri immemori amici e compagni – che ben prima della “presa del Palazzo d’Inverno, simbolo del potere zarista” ad opera dei bolscevichi nell’Ottobre 1917 (come egli afferma in un recente articolo sul “Trentino”) quel "potere zarista" era già stato abbattuto dalla fin troppo dimenticata Rivoluzione del Febbraio, che aveva fatto cadere lo zar Nicola II.

    Nel decantato Ottobre rosso i bolscevichi catturarono nel Palazzo d’Inverno non lo zar già fuori gioco, ma i ministri del governo guidato dal socialista Aleksandr Kerenskij, il vicepresidente del Soviet di Pietrogrado che da febbraio cercava di guidare una fuoriuscita democratica dall’autoritarismo russo. A febbraio Lenin era del tutto assente alla detronizzazione dello zar. Risiedeva a Zurigo e da lì rientrerà in Russia su un treno piombato fornito dai comandi militari germanici, interessati a creare contraddizioni nel fronte russo: che in effetti scoppiarono, portando alla caduta del governo Kerenskij.

    Le condizioni del popolo – già precarie – peggiorarono subito tragicamente: “l’idealismo libertario e generoso dell’ardore bolscevico” che secondo Dorigatti avrebbe animato la rivoluzione leninista per poi nei decenni decadere in un regime dittatoriale, fu subito smascherato non da un risentito conservatore ma dalla rivolu­zio­naria tedesca Rosa Luxemburg che fin dal 1918 – non dunque nella tetra epoca staliniana – diede la definizione più pregnante della nuova tirannia: «La guida effettiva è in mano a una dozzina di teste superiori; e una élite di operai viene di tempo in tempo convocata per battere le mani ai discorsi dei capi, votare unanimemente risoluzioni prefab­bricate: in fondo dunque è un predominio di cricche, una dittatura certo; non la dittatura del proletariato, tuttavia, ma la dittatura di un gruppo di politici».

    Quanto alle "influenze positive" che la rivoluzione bolscevica avreb­be prodotto nella sinistra mondiale, c’è proprio in questo anniversario il parere diametralmente opposto di Michael Walzer, uno dei più ap­prez­zati filosofi progressisti contemporanei: «La verità – afferma – è che la Rivoluzione bolscevica è stata un disastro per la sinistra»: infatti il comunismo è sorto sulla sopraffazione della sinistra socialdemo­cra­tica, dei valori di libertà e sulle purghe di intere popolazioni. Ma è pur vero che poi faticosamente sul piano storico-ideale ha vinto la visione della “corrente democratica del socialismo”, battendo il comunismo, cioè quella che il riformista Filippo Turati definì la “corrente reazio­na­ria del socialismo”: una miscellanea di funeste e malriposte promes­se demagogiche di cui si ammanta il populismo d’ogni latitudine e tempo.

 

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Da MondOperaio

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Catalogna - Difetto di memoria

 

di Stefano Ceccanti

 

Le vicende catalane di questi ultimi mesi e più in generale anche altre sempre avvenute in Spagna, come la relativa affermazione, su basi culturali piuttosto discutibili, di Podemos a danno del Psoe confermano ancora una volta che la storia non va sempre avanti nella direzione del progresso e che senza memoria non si dà futuro. La transizione spagnola dal franchismo alla democrazia è stata descritta più volte e in varie sedi come un modello positivo, per le sue caratteristiche di svolta verso le democrazie consolidate senza spargimento di sangue. Per questa ragione venne poi studiata attentamente nel Centro-Est Europa, specie in Polonia e Ungheria, come modello da imitare. E così effettivamente fu. Lo ricorda in particolare Samuel Huntington nel suo celebre volume sulla terza ondata democratica.

    "Ruptura pactada", la definì giustamente il leader eurocomunista Santiago Carrillo. Certo fu guidata, specie nella fase iniziale, da un personale politico sorto nel vecchio regime: a partire da Adolfo Suarez, che seppe aprirsi alle istanze dell'opposizione fino addirittura ad osare la legalizzazione del Partito comunista. Ma difficilmente i risultati sarebbero stati migliori seguendo un'altra strada: non solo perché non si riprodussero le lacerazioni della guerra civile (la cui memoria funzionò allora da antidoto), ma soprattutto perché i difetti della vita democratica spagnola sono più o meno quelli di tutte le democrazie avanzate, né di più né di meno.

    Certo: se invece di usare gli standard delle democrazie liberali si pensa che la Spagna dovesse evolvere verso modelli venezuelani o cubani, allora alcune delle critiche proposte da settori intellettuali vicini a Podemos (il "regime del 1978", il peso dei militari per una lunga parte della transizione, la persistenza della monarchia e della burocrazia franchista specie nel potere giudiziario, ecc.) si potrebbero ritenere fondate, perché verso quell'esito non si è andati.

    Del resto, purtroppo, non è un'originalità spagnola. Si tratta di filoni critici molto simili a quelli che contro Togliatti e la linea legalitaria del Pci (pur ambigua fino alla persistenza del "legame di ferro") si manifestarono con esiti dannosi nella storia d'Italia, legittimando o comunque giustificando parte del terrorismo di sinistra; o come quelli che si verificarono nel vicino Portogallo quando i militari di estrema sinistra tentarono un secondo golpe dopo quello dell'aprile 1974 perché desideravano una forma di Stato socialista e non una ordinaria democrazia occidentale coi suoi noti ma tutto sommato più accettabili difetti (specie se si considerano quelli delle alternative possibili).

    Giova invece ripetere che di capolavoro si trattò. Il consenso costituente fu larghissimo, e l'Ucd di Suarez (il partito centrista postfranchista, moderato e modernizzatore che gestì la transizione e che esplose poco dopo) prese sul serio il risultato delle elezioni delle Cortes costituenti. Non puntò a una maggioranza chiusa di centro destra, che pur ci sarebbe stata nei numeri, insieme ad Alleanza Popolare (il partito postfranchista più tradizionale, che poi si sarebbe evoluto nel Partido popular). Decise invece che il consenso, in modo formale e informale, si doveva anzitutto produrre tra il centrodestra e il centrosinistra, tra Ucd e Psoe: perché erano i due perni del sistema (l'uno un po' sopra il 30% dei voti e l'altro poco sotto) che avrebbero dovuto garantire l'alternanza e si dovevano legittimare nella condivisione piena della Costituzione. Solo su quella solida base comune sarebbe stata possibile un'alternanza non traumatica come quella che aveva preceduto la guerra civile: alternanza di governo, anche tra linee politiche molto diverse, ma non alternanza di regimi.

    A partire da quel nucleo duro di consenso si trattava di coinvolgere, per quanto possibile, anche le due forze politiche da 10%poste sulle ali, ossia il Pce e Ap (cosa che riuscì pienamente col primo e parzialmente col secondo) e i regionalisti (l'esito fu positivo con Convergenza democratica di Catalogna, ma non con Esquerra republicana della stessa regione e coi nazionalisti baschi). E la stessa dinamica si stabilizzò poi in Catalogna, dove i pilastri del sistema furono Convergència (che si confederò con la democristiana Uniò) e il Partito socialista catalano, dotato di ampia autonomia rispetto al nazionale. Convèrgencia i Uniò, sotto la guida di Pujol giocò spregiudicatamente sul piano nazionale sia col Psoe sia col Pp, garantendo appoggi decisivi a governi minoritari degli uni e degli altri ed ottenendo significativi vantaggi per la propria regione. Prodottasi poi l'alternanza a livello regionale, furono i socialisti catalani a negoziare con Zapatero un nuovo Statuto a condizioni più favorevoli, che fu poi amputato (più in modo simbolico che contenutistico) dalla Corte costituzionale su ricorso del Pp: una frattura che ha pesato sul seguito della vicenda perché i popolari non hanno immaginato forme di recupero e di compensazione*.

    Dove sono sorti i punti reali di rottura? Per un verso, sul piano nazionale, dall'affermazione di Podemos, che contesta in modo confuso il compromesso del '78; e per un altro dalla deriva di Convergència dopo la delegittimazione del suo fondatore Pujol (del quale ben pochi sospettavano che accanto a una forte rete clientelare, in parte inevitabile a causa della lunga egemonia regionale, avesse accumulato anche illeciti arricchimenti personali e familiari). Convèrgencia pertanto rompeva la federazione con Uniò e in sostanza rincorreva le posizioni estreme di Esquerra republicana per riacquisire legittimazione: e qui veniamo appunto alla storia recente, alla retorica dell'indipendenza e del referendum secessionista. Da parte dei regionalisti di Convèrgencia è cominciata come un gioco al rialzo in cui non si credeva (e non si crede) per davvero. Una volta però che si è imboccata quella strada, che si sono presi voti in nome di essa sostenendo che fosse percorribile, come tornare indietro?

    Pertanto, per riepilogare rapidamente la storia recente, nel Parlamento della Catalogna con gravi forzature procedurali e con una maggioranza ristretta e molto inferiore non solo a quella per cambiare la Costituzione, ma anche il solo Statuto – si sono approvate due leggi. Con la prima si sono dati tutti i poteri costituenti a un referendum senza alcun quorum: sarebbè stata sufficiente anche una minima quota di partecipazione al voto a determinarne l'esito. Peraltro alla fine il governo ha dovuto comunque ammettere, secondo i dati da esso stesso certificati, che solo poco più di un terzo dei catalani ha votato Sì.

    Nell'articolo 4.4 di quella legge sta la vera e propria bomba ad oro­lo­geria: si dice che la vittoria del Sì comporti entro quarantotto ore dalla proclamazione dei risultati una dichiarazione unilaterale di indi­pen­denza da parte del Parlamento regionale e l'avvio delle nuove isti­tu­zioni repubblicane previste dalla seconda legge (la Costituzione prov­visoria). A quel punto è fatale l'esplosione del conflitto tra due legit­ti­mità opposte. La Catalogna, sulla base di essa, si deve rifiutare di pa­gare le tasse, di obbedire alle leggi spagnole successive e a quelle pre­esistenti incompatibili con la propria Costituzione provvisoria, di rico­no­scere i tribunali spagnoli e la Corte costituzionale, e deve pretendere di avere il monopolio legittimo dell'uso della forza. Dalla proclama­zio­ne di indipendenza deve quindi scattare in automatico, secondo le due leggi approvate, una catena di conseguenze che gli apprendisti stregoni dell'indipendentismo non possono riuscire a fermare.

    Sul versante opposto, vedendola da e verso Madrid, va benissimo indicare la strada del dialogo, delle concessioni, di una maggiore apertura alle istanze territoriali differenziate: però è anche inevitabile affermare l'intransigenza sulla legalità costituzionale e sull'impossibilità di restare nell'Ue qualora la secessione dovesse avere successo contro una democrazia costituzionale. L'intransigenza di questa natura è senz'altro meno romantica rispetto all'identificarsi con presunte vittime innocenti impedite nell'esercizio del diritto di voto, ma è un dovere per qualsiasi partito nazionale, di maggioranza e di opposizione, che voglia continuare a muoversi, come è necessario, nell'alveo del compromesso del 1978. Perché la ragione sta comunque sul lato della Costituzione, che è quello della memoria, anche quando lì vi sono dei torti politici. E il torto sta dal lato di chi vuole romperla perché non ricorda, anche se ha delle specifiche ragioni politiche.

    Contro Rajoy è giusto e doveroso esprimere critiche politiche e battersi per un nuovo governo di diversa base politica e programmatica: ma gli indipendentisti sono fuori dalla legalità costituzionale e stanno portando a un aggravamento della situazione di cui il referendum illegale è solo la prima tappa. Alla fine anche per il Psoe è una strada obbligata perché il compromesso del 1978 è anche un suo compromesso: è quello sulla base del quale poté governare da solo già nel 1982, solo sette anni dopo la morte di Franco, nella tranquillità di tutti i cittadini e degli interlocutori europei che avrebbero accolto pochi anni dopo la nuova Spagna dentro l'Unione.

    Al momento di scrivere queste note non è ancora chiara la sorte del conflitto dopo la proclamazione dei risultati: ma tutto lascia intendere che non si potrà evitare una qualche forma di sospensione dell'autonomia regionale, che preluderà a nuove tensioni, a nuovi vittimismi e forse anche a elezioni regionali anticipate. Eppure, anche qui, sarebbe bastata la memoria: nel 1934 la proclamazione dello Stato catalano aveva subito portato il governo repubblicano centrale a un duro intervento repressivo e all'incarceramento del presidente della Generalitat di allora.

    È vero quindi il contrario di ciò che spesso si dice su un presunto "patto dell'oblio" che si sarebbe realizzato nel 1978 tra i contraenti della Costituzione, per cui ciascuno avrebbe dimenticato i torti dell'altro. Come ha spesso sottolineato il romanziere Javier Cercas, catalano e anti-indipendentista, il patto si basò proprio sulla memoria, sulla volontà di non ripetere gli errori tragici della guerra civile**, errori che tutti ben ricordavano: evadere da quel patto significa esattamente riprodurli, magari in forma solo attenuata.

 

    *) Si segnala qui l'ottimo saggio di Cesar Colino nel volume La Spagna di Rajoy, a cura di A. Botti e B.N. Field, Il Mulino, 2013.

    **) Vedi in proposito V. PEREZ-DIAZ, La Spagna dalla transizione democratica ad oggi. La formazione di una società civile, con prefazione di M. Salvati, Il Mulino, 2003.

         

                    

L'AVVENIRE DEI LAVORATORI

EDITRICE SOCIALISTA FONDATA NEL 1897

Casella postale 8965 - CH 8036 Zurigo

 

L'Avvenire dei lavoratori è parte della Società Cooperativa Italiana Zurigo, storico istituto che opera in emigrazione senza fini di lucro e che nel triennio 1941-1944 fu sede del "Centro estero socialista". Fondato nel 1897 dalla federazione estera del Partito Socialista Italiano e dall'Unione Sindacale Svizzera come organo di stampa per le nascenti organizzazioni operaie all'estero, L'ADL ha preso parte attiva al movimento pacifista durante la Prima guerra mon­diale; durante il ventennio fascista ha ospitato in co-edizione l'Avanti! garantendo la stampa e la distribuzione dei materiali elaborati dal Centro estero socialista in opposizione alla dittatura e a sostegno della Resistenza. Nel secondo Dopoguerra L'ADL ha iniziato una nuova, lunga battaglia per l'integrazione dei migranti, contro la xenofobia e per la dignità della persona umana. Dal 1996, in controtendenza rispetto all'eclissi della sinistra italiana, siamo impegnati a dare il nostro contributo alla salvaguardia di un patrimonio ideale che appartiene a tutti.

  

     

 

 

Allegato Rimosso
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