[Diritti] Torino. Autogoverno e resistenza popolare in Rojava: serata informativa



Giovedì 13 novembre
ore 21 in corso Palermo 46

Autogoverno e resistenza popolare in Rojava

Ne parliamo Ferat e Ezel del MED – centro culturale curdo – di Torino e
con Daniele Pepino, curatore dell’opuscolo “Dai monti del Kurdistan”

Per una libertà senza confini

Il Rojava resiste. La gente di Kobane, assediata dalle forze bene armate
del califfo, sta pagando un prezzo durissimo. Centinaia di migliaia di
profughi, migliaia di morti, devastazioni infinite ne sono il segno. E’
una lotta impari tra un esercito mercenario bene armato e ben pagato e le
milizie di autodifesa popolare, divise in battaglioni femminili e
maschili, che contendono metro dopo metro, casa per casa il terreno agli
islamisti. L’Isis intende massacrare e rendere schiavi tutti.
Siamo nel nord della Siria, una regione abitata in prevalenza da gente di
lingua curda ma anche assira, caldea, turca, armena, araba.
La posta in gioco in quest’area del pianeta è molto alta. Lo sanno bene
gli uomini e le donne in armi che difendono la propria autonomia non solo
dalle truppe dell’ISIS ma anche dalle pressioni degli Stati Uniti, che
subordinano il proprio appoggio alla resistenza alla rinuncia alla propria
esperienza di autogoverno popolare. Le frontiere con la Turchia restano
serrate per i volontari e le armi dirette a Kobane, la città assediata da
quasi due mesi. Vorrebbero che a Kobane andassero le truppe del Kurdistan
iracheno, una regione controllata da vent’anni dal partito filo
statunitense di Barzani.
Vorrebbero sopratutto che il silenzio calasse sulla storia di gente che si
organizza dal basso in comuni e comitati per decidere da sé come
amministrarsi. Vorrebbero che nessuno sapesse che in Rojava si pratica la
parità di genere negli organismi elettivi, la partecipazione di tutte le
componenti linguistiche, etniche e religiose. Nessuno deve diffondere
notizie sui cantoni del Rojava e la loro sperimentazione politica e
sociale. Potrebbe essere contagioso.
Negli ultimi anni si sono sviluppati movimenti di lotta che sia nelle
modalità organizzative, sia negli obiettivi hanno modi libertari.
Partecipazione diretta, costruzione di reti solidali su base locale,
mutazione culturale profonda che investe le relazioni di dominio nel corpo
sociale ne sono il segno distintivo, oltre alla durezza dello scontro con
le istituzioni statali e religiose che controllano i vari territori.
La caratteristica importante di questi movimenti è il radicarsi in aree
del pianeta dove negli ultimi quindici anni si sono sviluppati movimenti
reattivi all’occidentalizzazione forzata di stampo religioso.
Si va dalla Kabilia, la regione berbera dell’Algeria, al Messico
all’India, sino al Rojava.
Qui, nel 2012, profittando del “vuoto” lasciato dal governo di Damasco per
la guerra civile che sta insanguinando il paese, uomini e donne stanno
sperimentando il confederalismo democratico. Ispirato alle teorie del
municipalismo libertario dell’anarchico statunitense Murray Bookchin,
l’autogoverno in Rojava rappresenta un tentativo laico, femminista e
libertario di praticare un’alternativa ai regimi autoritari che si
contendono la Siria.
Intendiamoci. In Rojava non c’é l’anarchia. C’é tuttavia un percorso di
partecipazione diretta di segno marcatamente libertario.
Non solo. Per la prima volta tra la gente di un popolo senza stato, diviso
da frontiere coloniali, c’é chi dichiara esplicitamente di non volere un
nuovo Stato, di rifiutare ogni frontiera, di lottare perché la gente si
autogoverni su base territoriale, senza più frontiere. Se non ci sono
frontiere non possono esserci nemmeno stati. Un’attitudine rivoluzionaria
che inquieta il califfato e i loro ex amici a Washington.
Per la prima volta l’illusione che lotta di classe e indipendentismo siano
ingredienti di una stessa minestra rivoluzionaria, capaci di catalizzare
una trasformazione sociale profonda, tipica della sinistra autoritaria, si
scioglie come neve al sole, aprendo la possibilità di un percorso
libertario.
L’integralismo religioso e le satrapie mediorientali non sono un destino.
La difesa di Kobane ci riguarda tutti, perché la storia che hanno
cominciato a costruire apre uno spazio di libertà e uguaglianza importante
per tutti. In ogni dove.

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