[Diritti] ADL 140619 - Far capire



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L'AVVENIRE DEI LAVORATORI

La più antica testata della sinistra italiana, www.avvenirelavoratori.eu

Organo della F.S.I.S., organizzazione socialista italiana all'estero fondata nel 1894

Sede: Società Cooperativa Italiana - Casella 8965 - CH 8036 Zurigo

Direttore: Andrea Ermano

 

Settimanale in posta elettronica – Zurigo, 19 giugno 2014

   

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IPSE DIXIT

 

Difficile far capire - «È difficile far capire una cosa a una persona il cui stipendio dipende dalla sua capacità di non capirla.» – Upton Sinclair

  

    

TRE LIBRI

NUOVI

ZURIGO, DOMENICA 29 giugno 2014,

Al Cooperativo, St. Jakobstr. 6

dalle ore 10.15 alle ore 12.30

info:+41 (0)44 2414475

I tre libri di cui si parlerà:

 

FABIO VANDER, Posizione e movimento. Pensiero strategico e politica della Grande Guerra, Mimesis, Udine, 2013.

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LUCE D’ERAMO, Ignazio Silone, a cura di YUKARI SAITO, Castelvecchi, Roma, 2014.

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AA.VV., Genova 2012 - Materiali per un dibattito politico, a cura di FELICE BESOSTRI, Ed. AdL, Zurigo, 2014.

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Relatori:

FELICE BESOSTRI, Direzione nazionale PSI

CARLO GHEZZI, Fondazione Di Vittorio

YUKARI SAITO, Letterata e traduttrice

FABIO VANDER, Storico e filosofo

 

Moderatore: Andrea Ermano

 

Intervengono: Maurizio Montana, Francesco Papagni, Marco Tommasini, Valentin Lustig e Sandro Simonitto

 

FELICE BESOSTRI. Avvocato abilitato per le magistrature superiori, si è distinto per la sua battaglia contro il "Porcellum" conclusasi con la sentenza d'incostituzionalità. Senatore della Repubblica (XIII legislatura, DS) e membro dell'assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa tra il 1999 e il 2001, ha partecipato ai Forum Social Mundial del 2002 e del 2004 ed è oggi membro della Presidenza della Sezione Internazionale del PS Svizzero e della Direzione del PSI. Con l’ADLha pubblicato i volumi: Da lontano e da vicino (2001), Fili Rossi (2005), nonché curato Sinistra come in Europa (2007), e Genova 2012 (2014).

 

CARLO GHEZZI. Segretario della Fondazione Giuseppe Di Vittorio, costituita per iniziativa della CGIL nel 1991 allo scopo di promuovere studi storici e sociali sul movimento operaio e sindacale italiano. Già Segretario generale della Camera del Lavoro di Milano e responsabile dell'organizzazione della segreteria nazionale della Cgil, è stato delegato nel Consiglio di fabbrica della Pirelli. Sotto la sua guida la CGIL milanese si è battuta per la moralizzazione della vita pubblica e si è aperta ai problemi dell'immigrazione. Con la Fondazione Di Vittorio ha fornito un importante contributo alla promozione delle manifestazioni genovesi nel 120° dalla fondazione del Partito dei Lavoratori Italiani.

 

YUKARI SAITO. Traduttrice e lettrice di giapponese presso il Centro Linguistico dell'Università di Pisa. Saggista impegnata sulle tematiche sociali, ambientali, della pace e dei diritti umani, tematiche su cui nel 2006 ha fondato a Pisa il Centro di documentazione “Semi sotto la neve”, con denominazione ispirata a un celebre romanzo siloniano. Di Silone ha tradotto Vino e pane (Hakusuisha, Tokyo, 2000) e La scuola dei dittatori (Iwanami shoten, Tokyo, 2002), dopo aver fatto conoscere al pubblico nipponico Una famiglia italiana di Franca Magnani (Asahi Shimbun, Tokyo, 1992). Recentemente ha curato Ignazio Silone (Castelvecchi, Roma, 2014, pp. 762), opera in cui sono raccolti e compendiati in unico volume i principali saggi di Luce d'Eramo sullo scrittore marsicano nonché il carteggio d’Eramo-Silone.

 

FABIO VANDER. Storico e filosofo, lavora presso il Senato della Repubblica, si è laureato in filosofia con Gennaro Sasso e in scienze politiche con Pietro Scoppola. Tra le sue pubblicazioni: Metafisica della guerra (Milano, 1995); La democrazia in Italia (Genova-Milano, 2004); Contraddizione e divenire (Milano, 2005); Critica della filosofia italiana contemporanea (Genova-Milano, 2007); Essere e non-essere (Milano, 2009); De philosophia italica (Lecce, 2010).

        

 

L'AVVENIRE DEI LAVORATORI contribuisce da oltre 115 anni a tenere vivo l'uso della nostra lingua presso le comunità italiane nel mondo tra quelle persone che si sentono partecipi degli ideali socialisti-democratici di Giustizia e Libertà.

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EDITORIALE

 

Ci vuol giudizio

 

di Andrea Ermano

 

Che l’Italia possa modificare il sistema “bicamerale” e che il Governo italiano abbia facoltà di definire in tal senso una sua proposta nella competente Commissione del Senato, tutto ciò appartiene al novero delle scelte ammissibili, ancorché eventualmente sbagliate. Ma in democrazia errare è umano.

    Il rischio democratico inizia quando un premier decide di (far) revocare il mandato in Commissione ai senatori dissenzienti diffondendo in Parlamento larvate minacce di ricorso anticipato alle urne sotto la sferza dell'Italicum, un sistema elettorale in odore d’incostituzionalità, come non si stanca di ripetere Felice Besostri, il giurista distintosi nella battaglia per l’abrogazione del Porcellum.

    Queste mosse azzardose vanno lette contestualmente al “potere di candidatura”, finito da alcuni anni nelle mani di tre o quattro leader politici che fanno di tutto per tenerselo stretto, in barba alla sentenza della Consulta del 16 gennaio scorso.

    In tal modo si configura una sopraffazione dell’esecutivo (spalleggiato dai partitocrati) ai danni del potere legislativo. Perché? Il conformarsi alla “linea della maggioranza” o alla “disciplina di partito” non appartiene certo ai doveri sacri e primari di un legislatore coscienzioso. Men che mai in materia costituzionale.

    Ma la situazione è più complessa. Peso non trascurabile va del pari riconosciuto anche all’argomento renziano secondo cui il 41% dei consensi espresso a sostegno del premier deve intendersi come una sorta di “ultimo avvertimento” lanciato dal popolo all'establishment nazionale. Allora, però, sarebbe bene non dimenticare che codesto 41% rappresenta circa 11 milioni di votanti sui circa 50 milioni di aventi diritto.

    Basterà, codesto 41%, a legittimare la scorciatoia dell’art. 138 che consente di modificare la Costituzione senza dover poi sottoporre a referendum confermativo il nuovo assetto, se avallato da una maggioranza qualificata dei due terzi?

    Non pare proprio.

    Infatti, l'attuale Parlamento (dei "nominati" e ora anche degli “intimiditi”) poggia tutt’intero su 25 milioni di votanti, cioè su metà circa dell’elettorato complessivo. Dunque, una maggioranza qualificata nel Paese non esiste. E comunque l'asticella dei due terzi era pensata in rapporto a un sistema elettorale proporzionale, mentre il "porcellum" possedeva un impianto a tal punto maggioritario da essere stato dichiarato anticostituzionale.

    Chiunque capisce che la delicata materia esigerebbe basi di consenso reale ben più ampie, oltre che un mandato elettivo esplicitamente attribuito, su forme e contenuti “costituenti”.

    Ma i fautori di codeste modifiche costituzionali "veloci" giurano che esse sarebbero necessarie ed urgenti in quanto molto attese dai mercati globali non meno che dalle cancellerie amiche. Il che fa sorgere spontanea una domanda. Non stiamo per caso assistendo alla replica del “pareggio di bilancio” costituzionalizzato a suo tempo dal governo Monti, con esiti disastrosi?!

    In questa luce appare poco rassicurante, ma a suo modo “logico”, che l’assetto statuale italiano debba essere scardinato in modo così frettoloso. E soprattutto senza uscite di sicurezza referendarie a fine percorso.

    Purtroppo, dunque, all’orizzonte si addensa una crisi democratica piuttosto seria e grave. Ma, non ancora disperata, per nostra fortuna. Perché fino a Tipperary è una strada lunga.

 

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M. C. Escher, Belvedere (1958),

part. (“Uomo con cuboide”).

       

        

IL DIBATTITO

SULLE RIFORME

 

Fermatevi

 

di Pietro Folena

 

Prima che sia tardi Matteo Renzi e i suoi consiglieri, con l'appoggio di larga parte dell'ex-minoranza, dovrebbero evitare un cortocircuito traumatico nella coscienza del Paese. Non basta evocare i “voti”, come si è fatto in queste ore, mentre scrivo queste righe: non c'è voto, né “plebiscito” che giustifichi atti di prepotenza e di intolleranza come quello che ha visto il PD cacciare Vannino Chiti e Corradino Mineo dalla Commissione Affari Costituzionali perché non “allineati”. Non ho memoria, in epoche recenti, di un atto di questa brutalità. Il tema va al di là del merito della riforma: viene messo in discussione un principio costituzionale sacro, e cioè la non esistenza di un vincolo di mandato del parlamentare, il quale non deve rispondere al partito, ma alla sua coscienza, interpretando lì il senso del mandato ricevuto.

    Ricordo le sacrosante polemiche bersanian-renziane contro Beppe Grillo quando a più riprese è intervenuto per imporre un vincolo agli eletti del M5S. Oggi Anna Finocchiaro, che presiede la Commissione, giustifica questa sostituzione affermando che il problema della libertà di coscienza esiste solo per l'Aula!

    Non si sta discutendo della fiducia al Governo né della legge di stabilità; né di temi come quelli del lavoro, su cui le sensibilità nel PD sono molto differenti, e acute; e neppure della pace – chi scrive nei DS, in Commissione e in Aula, votò a più riprese in dissenso all'epoca di controverse decisioni sulle missioni militari, senza mai subire atti di imperio paragonabili a questo.

    Qui si discute di Costituzione, di una materia di per sé al riparo, più di ogni altra, da diktat delle nomenklature di Partito.

    Il PCI, nell'era del Cominform, affrontò la formulazione della Costituzione con un'apertura e una disponibilità ben superiori rispetto a quelle dimostrate  ora.

    I quattordici senatori del PD hanno fatto bene a autosospendersi. Bisogna chiamare i vertici del Partito a riflettere, e a tornare indietro, sperando che sia solo l'inesperienza ad aver provocato questo autogol. Bisogna invitare i circoli e gli iscritti  a esprimersi sulla questione.

    Matteo Renzi ha vinto largamente. Ma farebbe un errore a voler stravincere. Non c'è 41%, e neppure 51% che giustifichi sulla questione delle regole un'intolleranza per chi la pensa diversamente.

    Ora questo giovane leader deve dimostrare di non essere un altro capo populista, come altri che abbiamo conosciuto in questi anni, ma uno statista, e un leader che vuole promuovere una nuova stagione “democratica”.

    Avere la capacità di fermarsi non è un atto di debolezza, ma una dimostrazione di forza: la forza della ragione, contro le ragioni della forza.

 

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Vannino Chiti e Matteo Renzi

 

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IL DIBATTITO

SULLE RIFORME

 

L’appello agli autosospesi

 

“Salvaguardate l’unità del Partito”

 

La riforma costituzionale e, in particolare, il profilo e la natura che il nuovo Senato dovrà avere hanno dato al confronto interno al PD una connotazione che rischia di far male non solo al Partito, reduce da una vittoria elettorale nettissima che lo carica di particolari responsabilità, ma anche al Paese, che richiede determinazione e coerenza nel processo di cambiamento che il Governo Renzi ha avviato.

    La decisione di autosospendersi dal gruppo di 13 senatori del Pd, tra i quali i 3 eletti all’estero, a seguito della sostituzione di alcuni di loro nella commissione nella quale si sta discutendo della riforma costituzionale ci appare non convincente e non giustificata.

    La rivendicazione della libertà di coscienza, infatti, sacrosanta su questioni che attengono alla sfera etica e morale, a noi sembra inappropriata rispetto a una questione di architettura costituzionale che, per quanto importante e delicata, va affrontata nell’ambito e con le regole del confronto democratico, per il quale vale il rapporto maggioranza-minoranza.

    Il diritto al dissenso rispetto a specifiche soluzioni, anch’esso intangibile in ogni sede, di partito e istituzionale, non può diventare di fatto, in particolari condizioni, un grimaldello per scardinare un’impostazione che in più occasioni ha avuto il vaglio della discussione e della decisione democratica. I gruppi del PD di Camera e Senato, infatti, hanno numerose volte discusso la questione delle riforme costituzionali ed orientato la propria azione, non senza posizioni dialettiche, al sostegno del progetto di riforma presentato dal Governo. L’iter in Commissione Affari costituzionali del Senato doveva passare per una fase istruttoria di confronto con le altre forze, con l’obiettivo di arrivare a un testo unificato, garantito dalla maggioranza che sostiene il Governo e dal Partito Democratico, che ne è il fulcro.

    La libertà di esercitare il mandato parlamentare e di dissentire, valori certamente da tutelare, trovano giustificazione e certezza nel dialogo costante con il proprio gruppo di appartenenza e nel rispetto del vincolo fiduciario con esso che giustifica il rapporto di rappresentanza. La sede propria, dunque, per manifestare una diversa opinione rispetto a quella del gruppo di appartenenza è quella dell’Aula, dove ci si misura con la proposta definitiva e si parla all’intero Parlamento e all’opinione pubblica. Non può essere quella della Commissione, se la diversa opinione nelle condizioni date impedisce ad un partito che ha responsabilità di maggioranza e di governo di avanzare una proposta complessiva già passata attraverso i filtri di una confronto democratico interno.      

    Queste considerazioni non sono un giudizio sulle decisioni assunte dal Gruppo PD del Senato, né una valutazione sulla decisione di autosospendersi assunta anche da tre colleghi senatori eletti all’estero. Sono, piuttosto, un’espressione di quella libertà di opinione che loro stessi rivendicano.

    Ci auguriamo sinceramente che prevalga il senso di responsabilità, che si lavori per salvare questa legislatura e che si metta a frutto la credibilità politica guadagnata con il voto del 25 maggio, che ci impone di proseguire sulla strada delle riforme indicata dal Governo e sostenuta dalla grande maggioranza del PD. La questione che ci troviamo ad affrontare è tutta politica, non costituzionale. Il Partito Democratico è chiamato a usare la forza che ha ricevuto dall’elettorato per portare a buon fine il cammino delle riforme e dare segni concreti di saper corrispondere con i fatti all’attesa di cambiamento. Questo vale per tutti, non solo per una maggioranza interna.

 

I deputati Estero cel PD

Farina, Fedi, Garavini, La Marca, Porta

 

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IL DIBATTITO

SULLE RIFORME

 

PARLANO GLI AUTOSOSPESI

 

“RIENTRIAMO NEL GRUPPO MA…”

 

Sosterremo i nostri emendamenti al testo base del Governo

 

Abbiamo preso atto delle dichiarazioni del presidente del gruppo Pd del Senato, Luigi Zanda. Le riteniamo positive su due punti di grande rilievo.

 

1)      Viene confermato come l'articolo 67 della Costituzione valga sempre, tanto in aula quanto in commissione.

 

2)      I 20 senatori che avevano firmato il Ddl Chiti e i 14 che si sono autosospesi dal gruppo a difesa dell'articolo 67 della Costituzione, fino a quando non fosse intervenuto un chiarimento, non vengono considerati 'frenatori delle riforme' o 'ricattatori della maggioranza', ma colleghi impegnati in una battaglia politica, che come tutte le battaglie può essere discussa, ma resta legittima.

 

Riteniamo non positiva, invece, la decisione di confermare le sostituzioni di Corradino Mineo e di Vannino Chiti nella Commissione Affari Costituzionali.

    Con questa seria riserva, riteniamo che le dichiarazioni del presidente Zanda ci consentano comunque di riprendere il lavoro all'interno del gruppo Pd del Senato. In particolare, continueremo a sostenere i nostri emendamenti al testo base del Governo che, peraltro, le trattative in corso o in fieri con Lega, Forza Italia e M5S potrebbero ulteriormente modificare.

    Gli emendamenti verranno sostenuti in Commissione. Quelli che non fossero accolti potranno essere ripresentati in Aula. Una speciale attenzione verra' data alla riduzione contestuale del numero dei senatori e dei deputati, alla elezione diretta di tutti pur nel superamento del bicameralismo paritario, all'obbligatorieta' del referendum confermativo, qualunque sia la maggioranza parlamentare che approvera' la riforma''.

 

I senatori del PD: Chiti, Corsini, D'Adda, Dirindin, Gatti, Giacobbe, Lo Giudice, Micheloni, Mineo, Mucchetti, Ricchiuti, Tocci e Turano.

 

P.S.: Non e' stato possibile contattare il senatore Felice Casson, in missione all'estero.

       

    

Da Avanti! online

www.avantionline.it/

 

Presidenzialismo e accordo B-R: il grande inganno

 

di Mauro Del Bue

 

Dunque Berlusconi rilancia sul presidenzialismo. Annuncia una raccolta di firme e precisa che è sua intenzione proporre l’elezione diretta del presidente della Repubblica. Presidenzialismo alla francese o all’americana? Berlusconi sostiene che il capo dello stato deve dirigere il governo. Dunque pare un presidenzialismo a tutto tondo. Naturalmente siamo alle schermaglie, alle prime mosse. Vedremo in seguito gli sviluppi. Nel contempo Berlusconi conferma l’impegno a votare le tre leggi concordate con Renzi, e cioè l’Italicum, la riforma del Senato e quella del Titolo quinto della Costituzione. Si dovranno vedere Romani e la Boschi e se ci saranno problemi si vedranno direttamente loro due, Berlusconi e Renzi.

    Sembra di trasecolare. Ma come? Si ipotizza una riforma dello Stato di tipo presidenzialista e si conferma un impegno su una riforma elettorale parlamentarista? Ma dove siamo? E poi. Possibile che vengano avanzate tre proposte, due di riforma costituzionale, e si prescinda da quella più rilevante, cioè quella di natura presidenziale? Di cosa dovrebbero parlare Romani e la Boschi, del premio di maggioranza di chi? Se il presidente della Repubblica viene eletto direttamente, diivenendo anche capo dell’esecutivo, parliamo piuttosto della legge elettorale che dovrebbe eleggerlo, che diventa la più importante di tutte. E dovrebbero mettere a punto anche la composizione di un Senato senza reali poteri che Berlusconi giudica troppo di sinistra, per la presenza dei sindaci, e non del potere del presidente monarca, all’americana, ma anche alla francese?

    Siamo su scherzi a parte? No, sui telegiornali italiani dove pullulano bravissimi giornalisti che non capiscono la politica e men che meno la logica istituzionale. Parlano del BR e del presidenzialismo come fossero due scene diverse di uno stesso film. E nessuno chiede niente. Così avanziamo verso il nulla. Con Grillo che si è inserito nel dialogo a due e con uno dei due contendenti che ipotizza una forma di Stato opposta rispetto a quella del suo interlocutore. I malevoli dicono che sul presidenzialismo sarebbe d’accordo anche Renzi. Lo dica allora. Ammesso che il suo partito glielo lasci dire. Noi, che presidenzialisti eravamo quando non lo era nessuno, continuiamo a sostenere la via maestra della Costituente. Partendo proprio dall’alternativa tra parlamentarismo e presidenzialismo, da cui tutto deve discendere, compresa la legge elettorale, che dovrà essere maggioritaria nel presidenzialismo e proporzionale nel parlamentarismo. Sembra di dire cose ovvie. E invece non è così. Siamo perfino originali.

 

Vai al sito dell’avantionline

       

 

SPIGOLATURE 

 

Iraq: Caporetto dello stato

 

Se mai servisse ancora una prova di

quanto insensata sia la guerra…

 

di Renzo Balmelli 

 

CAPORETTO. Se mai servisse ancora una prova di quanto insensata sia la guerra, l'Iraq ne è la dimostrazione inoppugnabile. Costruita sulla menzogna, la menzogna delle armi di distruzione di massa, ancora oggi se ne misurano le fatali conseguenze: anziché la democrazia e la stabilità, in quella martoriata regione per ora vince il terrore, perde l'occidente ed a Bagdad si delinea la Caporetto delle autorità civili. Ne sa qualcosa d'altronde il presidente Obama che si è dato da fare per archiviare la sciagurata politica di Bush muovendosi sul terreno del negoziato e della pacificazione. I margini di manovra della Casa Bianca tuttavia sono esigui, tanto da pensare, per evitare il peggio, a una delicata manovra diplomatica con l'Iran, improponibile fino a ieri, pur sapendo di giocare una carta tanto difficile quanto scomoda.

 

CASTE. Con le elezioni l'India ha voltato pagina, ma l'opinione pubblica si chiede se il nuovo governo del fondamentalista Narendra Modi avrà la capacità di cancellare la vergogna del femminicidio che fa notizia con le sue orribili storie di stupri e violenze. Letterata e militante, la famosa romanziera e battagliera saggista Arundhati Roy nel presentare il suo nuovo libro giunge alla conclusione che il suo Paese non riuscirà a liberarsi tanto presto dalla lacerante contraddizione tra la non violenza gandhiana e la prevaricazione sanguinosa, se prima non sconfiggerà il suo grande nemico interno rappresentato dal sistema delle caste. Perché le violenze sulle donne - annota la scrittrice - nascono da li, così come le peggiori ingiustizie, frutto di un cultura dura a morire.

 

DIVERSITA'. Col film "Good Night and Good Luck", dedicato al giornalista televisivo Edward Murrow, figura storica della lotta al maccartismo, George Clooney si era guadagnato un posto nella schiera dei registi "liberal" che operano a Hollywood. Forte di questa garanzia, che ha risvegliato l'interesse degli strateghi democratici, attorno all'ex scapolo d'oro del cinema si va delineando un programma di lungo respiro che punta sulla diversità e sul cambiamento prima con le Presidenziali del 2016 e poi alla carica di governatore della California che in Clooney vede appunto un candidato credibile e ideale. Per la prima volta una donna, Hillary Clinton, alla Casa Bianca, un vice inedito, Julian Castro, esponente della forte comunità ispanica e in scia un attore di fama: nel partito della sinistra, muovendosi con tempismo , il confronto coi repubblicani, a corto di idee e di personalità , è ormai lanciato.

 

BRIVIDO. Da allora son trascorsi 74 anni, ma rivedendolo oggi nella versione restaurata dell'Istituto Luce, il discorso del duce che annunciava l'entrata in guerra dell'Italia conserva intatta tutta la sua sconfinata, rovinosa e contagiosa follia. Ancora si avverte un brivido gelido correre lungo la schiena per la drammatica svolta che avrebbe cambiato la storia del Paese. Colpisce, nel filmato, la " mostruosa" abilità della propaganda nel costruire la narrazione iconica del fascismo unita alla precisa regia nell'enfatizzare la postura di Mussolini, mascella protesa, mani sul cinturone, mentre parla di vittoria con la foga di un piazzista della bugia. Molti gli credettero e in quel caldo pomeriggio di giugno un popolo venne incamminato verso la rovina. Un giudizio storico che difficilmente potrà essere smentito.

 

INCULTURA. Nella mente dei nostalgici incalliti frulla ancora da qualche parte come un residuo di passate e assurde visioni, la tentazione mai del tutto rimossa, di "spezzare le redini alla perfida Albione". Se n'è assaporato l'amaro retrogusto negli astrusi giudizi sugli inglesi che una " eminente" personalità romana , un tempo ministro di FI, ha affidato a twitter dopo la vittoria dell'Italia ai mondiali di calcio. Ne è seguita una baraonda di pesanti improperi in libera e rovinosa uscita che ha indignato la Rete . Tra i vari commenti, uno coglie perfettamente nel segno: la destra, perlomeno la destra di quel tipo, " muore perché priva di cultura". Oltre alla figura di pessimo gusto, l'improvvida uscita è stata una imperdonabile caduta di stile, conferma appunto di incultura.

  

    

L'AVVENIRE DEI LAVORATORI - Voci su Wikipedia :

(ADL in italiano) http://it.wikipedia.org/wiki/L%27Avvenire_dei_Lavoratori

(ADL in inglese) http://en.wikipedia.org/wiki/L%27Avvenire_dei_Lavoratori

(ADL in spagnolo) http://es.wikipedia.org/wiki/L%27Avvenire_dei_Lavoratori

(Coopi in italiano) http://it.wikipedia.org/wiki/Ristorante_Cooperativo

(Coopi in inglese) http://en.wikipedia.org/wiki/Ristorante_Cooperativo

(Coopi in tedesco) http://de.wikipedia.org/wiki/Cooperativa_italiana

   

  

Da Spiegel online

http://www.spiegel.de/

 

Quattro contro Merkel

 

Il dibattito sul diktat dei tagli alla spesa in Europa

 

di Gregor Peter Schmitz

 

“Un freno alle politiche restrittive”. Lo chiede il leader della SPD, Sigmar Gabriel. Che contro l’austera Cancelliera va formando un pacchetto di mischia insieme al collega di partito Martin Schulz, al premier italiano Matteo Renzi e al Presidente francese François Hollande... ( > Vai al sito, in tedesco).

           

        

Economia

 

BCE, due assiomi errati

 

L’alternativa tra Quantitative easing e New Deal

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Come da noi evidenziato nel recente passato il governatore Mario Draghi nella sua ultima conferenza stampa mensile di fatto ha affermato che il Quantitative easing  (QE) “all’europea” è pronto per essere messo in campo. L’abbassamento allo 0,15% del tasso d'interesse, il tasso negativo di - 0,10% per i depositi overnight fatti dalle banche presso la Bce e i 400 miliardi di euro di nuova liquidità alle banche che concedono prestiti a imprese e famiglie, non sono altro che il corollario delle prossime mosse che prevedono l’utilizzo di “strumenti non convenzionali”, come l’acquisto diretto da parte della Bce di asset backed security, titoli cartolarizzati basati su prestiti fatti al settore privato dell’eurozona.

    Consapevole del ruolo nefasto che certi abs, soprattutto quelli legati al settore immobiliare, hanno avuto nello scatenare la crisi finanziaria americana nel 2007-2008, Draghi ha voluto sottolineare che, tenuto conto delle nuove regole in discussione sui derivati finanziari, gli abs in questione dovranno essere “semplici, perciò non Cdo complessi, reali, cioè basati su prestiti veri e non su derivati, trasparenti, e quindi comprensibili per i sottoscrittori”.

    La Bce quindi si sforza di spiegare che l’operazione sarà differente da quelle finora fatte negli USA, in UK e in Giappone, in quanto non si acquisteranno titoli di stato bensì si cercherà di facilitare la concessione di prestiti all’economia reale da parte delle banche.

    Almeno sul piano teorico la Bce cerca di evitare quelle politiche di QE che hanno prodotto conseguenze negative e anche nuove bolle. Ad esempio, per i 400 miliardi di nuova liquidità le banche non potranno presentare prestiti-mutui concessi alle famiglie per l’acquisto di immobili in quanto una simile operazione fatta in Inghilterra ha prodotto l’anno scorso un aumento dei prezzi delle case dell’11%. Purtroppo però le scelte della Bce rimangono ancorate a due assiomi errati.

 

- Il primo scaturisce dalla paura di deflazione derivante anche dall’incapacità di mantenere un tasso di inflazione intorno al 2%.

    Occorre sfatare il mito che l’inflazione, anche quella controllata, sia un toccasana per l’economia. In un’economia ben funzionante, dove si ha un aumento della produttività a seguito di miglioramenti tecnologici e di una maggiore professionalità delle risorse umane, i prezzi tendono naturalmente a scendere. Ciò è un bene per i processi economici.

    E’ vero comunque che una certa inflazione, magra consolazione, contribuisce a ridurre il debito pubblico. Ma è altrettanto vero che l’inflazione, in mancanza di aumenti salariali e di altre entrate, erode i redditi dei cittadini, riduce i loro livelli di vita e di consumo andando a diminuire la domanda e quindi tende ad incidere al ribasso sui prezzi. Ciò è avvenuto anche in Italia dove i cittadini e le famiglie hanno visto i loro redditi ridursi sensibilmente dall’inizio della crisi.

    E’ quindi errato misurare la necessità un “po’ di inflazione” in funzione del debito pubblico.

    Non può essere un’anomalia a determinare quello che dovrebbe essere invece un andamento virtuoso dell’economia. Il rischio di deflazione dipende dalla contestuale caduta dei redditi e della domanda, dalla restrizione dei processi economici e dalla mancanza di politiche di sviluppo e di crescita.

 

- Il secondo assioma fuorviante è la pervicace volontà di veicolare la liquidità e il credito esclusivamente attraverso il sistema bancario così come esso è attualmente strutturato.

Sei anni di salvataggi e di altri “esprimenti” monetari sono serviti soltanto a dimostrare che si è caduti nella “trappola della liquidità”. L’enorme liquidità messa a disposizione a basso costo dalla Banca Centrale non è poi rifluita verso le famiglie, le imprese e nuovi investimenti, come avrebbero voluto i teorici dell’automatismo dei vasi comunicanti. Invece è rimasta parcheggiata nel sistema bancario! In parte ha comprato titoli di stato, in parte è stata depositata presso la Bce lucrando sul tasso di interesse, in parte si è mossa verso operazioni speculative e ad alto rischio.

    Siamo convinti che anche Draghi sia consapevole di tutto ciò. La Bce però continua a ripetere argomenti triti per dimostrare che il suo mandato non le consente altre scelte. Questa impotenza progettuale non può essere portata a giustificazione.

    La storia ci può aiutare. L’America cominciò a uscire realmente dalla Grande Depressione del 1929-33 solo con il New Deal. Il governo del presidente Roosevelt allora definì una serie di grandi progetti di sviluppo nel campo delle infrastrutture, della modernizzazione dell’agricoltura, della regolamentazione delle acque, dell’edilizia popolare, delle nuove tecnologie creando posti di lavoro, nuova ricchezza e reddito.

    Lo fece anche creando strumenti creditizi che portavano risorse direttamente alle imprese e alle famiglie coinvolte nella realizzazione dei vari progetti.

    Anche la ricostruzione dell’economia nell’Europa del dopo guerra avvenne con lo stesso spirito, mettendo in campo lo Stato e i privati, i progetti di sviluppo e il necessario credito.

    Perché non progettare e avviare in tempi brevi un nuovo e moderno New Deal europeo?

       

       

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.rassegna.it

 

Le politiche che uccidono l'Europa

 

La questione salariale. Oltre alla “austerità espansiva” si punta ancora sulla “precarietà espansiva”, con conseguenze pesanti sui redditi. Scelte sostenute da una narrazione che, se non fosse per le technicalities impiegate, ricorderebbe molto l’ancien régime.

 

di Paolo Pini *)

 

La Commissione europea ha presentato all’inizio di giugno le sue “Raccomandazioni 2014-2015” per i singoli paesi dell’Unione. Il responso elettorale ha ammorbidito il timing delle stesse, ma non la loro sostanza. La rotta non muta: vincoli di bilancio da rispettare, consolidamento fiscale da proseguire, riforme strutturali da realizzare. D’altra parte non vi erano aspettative per un cambiamento, semmai per una “non indisponibilità” a fornire qualche forma di flessibilità a seguito della richiesta del nostro ministro dell’Economia dopo l’approvazione del Def 2014.

    Nel caso italiano, la Commissione ha attestato che non siamo allineati nel percorso di rientro dal debito e quindi nel raggiungimento degli obiettivi di medio termine di pareggio del bilancio strutturale. Si richiede che entro settembre 2014 si realizzi questo allineamento con interventi aggiuntivi, oltre che il rispetto degli impegni assunti sul terreno di tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni, riforme sul mercato del lavoro, e altro ancora, rinnovando le precedenti raccomandazioni e chiedendo un più attento monitoraggio e verifica degli interventi realizzati e programmati. Come dire “fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”. Poche settimane fa sono stati resi pubblici i dati congiunturali di crescita del reddito nei paesi europei per i primi tre mesi del 2014 e di crescita tendenziale a un anno, rispetto allo stesso periodo del 2013. La rappresentazione era sconfortante, ma allo stesso tempo non sorprendente.

    A fronte dei segnali di uscita dalla crisi di fine 2013, che troppi commentatori ottimisti interpretavano come indicazioni inequivocabili della “luce alla fine del tunnel”, il dato congiunturale più recente ha scioccato i più, riconsegnandoci un’Europa squilibrata che si muove a più velocità, peraltro tutte deboli se confrontate a quella statunitense e anche a quella giapponese. In questo quadro deprimente, l’Italia si è presentata con un -0,1% nel primo trimestre 2014 e un -0,5% come dato tendenziale a un anno di distanza (rispetto al primo trimestre 2013). L’obbiettivo del Def 2014, che programmava una crescita del +0,8% per il 2014, non appare più alla portata; peraltro le stesse previsioni internazionali, che indicavano un minore +0,6%, vengono aggiustate ulteriormente verso il basso, a +0,5%.

    Dall’inizio della crisi, il Pil italiano è diminuito di 7 punti percentuali, e analoga è oggi la distanza (output gap) tra reddito effettivo e reddito potenziale nonostante che quest’ultimo sia diminuito proprio a causa della crisi. Il Pil reale italiano è oggi al livello del 2000, 14 anni orsono. La prospettiva di farlo crescere da qui al 2018 di oltre il 7% appare una chimera, in assenza di una vigorosa politica economica di domanda che sostituisca quella attuale di rigore che amplifica la depressione.

    L’Istat (La situazione del paese, 2014) ha poi certificato che le politiche di austerità in Italia, con avanzi primari crescenti durante la crisi (oltre il 2% sul Pil), hanno contribuito alla diminuzione del reddito peggiorando allo stesso tempo il debito pubblico (giunto al 133% sul Pil) e portando le persone disoccupate e inattive ma potenzialmente sul mercato del lavoro (scoraggiati e giovani senza lavoro e senza formazione) a superare la soglia dei 6 milioni nel 2013. Ma l’Europa insiste sul fatto che la via dell’austerità espansiva non deve essere abbandonata, anche se siamo entrati nel settimo anno della crisi, come i dati di inizio 2014 certificano e soprattutto anche se la lunga depressione che dal 2008 investe l’Europa è anche un lascito delle politiche economiche adottate: le politiche di austerità espansiva e di precarietà espansiva, attuate quasi in contemporanea nei vari paesi.

    Le prime, del rigore dei conti, hanno agito sulla base della fallace idea secondo la quale dal contenimento dei deficit pubblici conseguissero riduzioni dei debiti e si liberassero risorse che il privato sarebbe andato a utilizzare più efficacemente. Ma non si è tenuto conto del “vuoto di domanda” che così l’arretramento del pubblico creava, oltre che dell’efficacia spesso solo presunta del privato. La minore domanda pubblica non è stata compensata da una maggiore domanda privata, anzi consumi privati e investimenti privati sono diminuiti mettendo in crisi tutta la domanda interna, europea e nei singoli paesi, lasciando tutto l’onere della crescita a una domanda estera peraltro non più trainante. L’esito è stato che proprio a seguito del rigore i debiti invece di diminuire sono aumentati – nell’Eurozona, da un rapporto del 65% sul Pil, si è superata la soglia del 95% – e al contempo la crescita del reddito si è azzerata, mentre quella dell’occupazione è divenuta negativa.

    Le seconde, della competitività salariale, hanno avuto il loro pilastro nella flessibilità del lavoro, contrattuale e retributiva. Anche in questo caso un’idea fallace le ha alimentate, ovvero che l’aumento dell’occupazione potesse essere conseguito unicamente a condizione che si realizzasse un trasferimento di tutele del lavoro e di diritti da chi li aveva a chi ne era privo. Gli esiti sono stati molteplici, e prevedibili, sull’offerta e sulla domanda. Si è ridotta la platea del lavoro tutelato ed è aumentata quella del lavoro non tutelato, senza peraltro accrescere le tutele per questo ultimo. Si è così realizzata una sostituzione di lavoro più che una creazione di lavoro, con conseguente riduzione di tutele e diritti sia per chi li aveva conquistati nel passato, sia per chi si attendeva una alleggerimento dello stato di precarietà lavorativa e sociale. Ma non sono stati intaccati solo tutele e diritti: le stesse retribuzioni ne hanno sofferto, sia quelle degli insider che quelle degli outsider. Le retribuzioni nominali sono state compresse, e le retribuzioni reali diminuite; queste ultime non hanno certo tenuto il passo della pur debole crescita della produttività, determinando un’ulteriore fase di diminuzione della quota del lavoro sul reddito (si veda Janssen R., Social Europe Journal, 30 maggio 2014: http://www.social- europe.eu/2014/05/ wage depression/).

    Questa politica di svalutazione interna caricata sul lavoro ha forse contribuito ad aumentare la competitività del sistema e la sua crescita Non appare questo l’esito, semmai tale politica sembra produrre due effetti, entrambi perniciosi. Da un lato, ne è derivato un contenimento della domanda di beni e servizi che trae origine dal reddito da lavoro, andando ad aggravare gli effetti negativi delle politiche di austerità sulla domanda interna. Dall’altro, la competitività del sistema non ne ha tratto vantaggio, se è vero che sia per effetti di scala (minori volumi di produzione) che per quelli di sostituzione (lavoro meno retribuito e meno produttivo), la dinamica della produttività langue in tutta Europa, e prosegue la sua ventennale stagnazione in Italia in presenza di contenimento dei salari nominali.

    D’altra parte, che queste non fossero le politiche più adatte da adottare nella crisi lo aveva ben indicato Keynes nel capitolo dedicato ai “Cambiamenti dei salari nominali” (il capitolo numero 19) della sua Teoria generale. Tuttavia la Commissione non è interessata a ciò che scriveva Keynes, e neppure a ciò che sostiene una platea, a dire il vero molto vasta, di economisti più o meno keynesiani. Per cui le sue Raccomandazioni del 2 giugno continuano a prescrivere per l’Italia, come per gli altri paesi, niente altro che la continuità delle politiche di flessibilità del mercato del lavoro, contrattuali e retributive, per accrescere la competitività salariale. La crescita è affidata al contributo della componente estera della domanda, anche se questa pesa meno del 20% per i paesi dell’Unione, mentre il rimanente 80% è domanda interna, consumi delle famiglie, investimenti privati e pubblici, servizi collettivi.

    Per accrescere la prima ci raccomandano di proseguire nelle politiche coordinate e simmetriche che comprimono la seconda, anche se queste hanno effetti depressivi sul reddito complessivo e sull’occupazione, producendo anche l’effetto collaterale di un innalzamento del rapporto debito/Pil per tutti i paesi. La competitività salariale è intesa come lo strumento cardine per conseguire questo obiettivo, che opera via riduzioni del costo unitario del lavoro, tale da accrescere la competitività di costo europea nei mercati globali. Per la Commissione ciò si realizza con interventi che ridimensionano il ruolo della contrattazione collettiva, nazionale e di settore, nella determinazione dei salari nominali, che invece devono essere allineati alla produttività dell’impresa, meglio ancora dei singoli lavoratori.

    Al contempo i salari reali non devono essere preservati da un meccanismo d’indicizzazione e salvaguardia del potere d’acquisto, ma rispondere alle condizioni di un mercato del lavoro concorrenziale, dove ingressi e uscite devono essere peraltro deregolati per servire le esigenze produttive dell’impresa, senza interferenze esercitate dalle istituzioni che vincolano l’agire manageriale e creano anche barriere tra i lavoratori protetti e garantiti, gli insider, e coloro che non lo sono, gli outsider. In fondo la precarietà o la disoccupazione non sono altro che l’altra faccia della medaglia dell’operare di istituzioni collettive: ridimensionate queste, saranno ridimensionate sia la precarietà che la disoccupazione.

    Una narrazione questa che viene resa più appealing dalle tecniche economiche sulla disoccupazione strutturale che portano quella italiana all’11% lasciando un misero 2% per quella involontaria keynesiana. Così da far risultare evidente ciò che evidente non è, ovvero che non sia la domanda il problema, semmai le condizioni di offerta, e quindi la necessità delle riforme strutturali. Una narrazione che, se non fosse per le technicalities impiegate, ricorda molto l’ancien régime.

 

*) Professore di Economia politica, Università di Ferrara

   

 

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