Torino. Manichino impiccato e fiori al CIE. In ricordo di Nabruka



Torino. Manichino impiccato e fiori al CIE. In ricordo di Nabruka

Torino 15 novembre.
Nella notte corso Brunelleschi ha cambiato nome. La strada che costeggia
il CIE di Torino è diventata “corso Nabruka Nimuni”.
Di fronte al CIE - perché tutti ricordino e nessuno possa dire che non
sapeva - è stato impiccato un manichino. Sotto un mazzo di fiori e un
cartello “A Nabruka Nimuni. Uccisa da una legge razzista”.

Qui le foto scattate da un reporter di passaggio:
http://piemonte.indymedia.org/article/6377

Anche questa notte le grida dei prigionieri hanno oltrepassato le gabbie e
il muro. Stavolta la protesta è partita nella sezione femminile: tra
mezzanotte e l’una per una ventina di minuti si sono udite battiture e
urla. Poi è calato il silenzio. Intorno alle 2 e mezza è uscita
un’ambulanza scortata dalla polizia.

Per i più Nabruka Nimuni non era nessuno: un’immigrata senza documenti,
illegale, clandestina. Due righe in cronaca e poi via. Roba per le
statistiche e nulla più. Sottrarre la sua storia all’oblio, al solo dolore
di chi le voleva bene è un modo per fuggire la terribile normalità del
male, che brucia le viscere della nostra società.
Il 7 maggio di quest’anno Nabruka si è suicidata nel Centro di
Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria a Roma. L’hanno trovata
impiccata nei bagni. Poche ore prima aveva saputo che quel giorno
l’avrebbero deportata in Tunisia. Viveva in Italia da oltre vent’anni,
aveva un figlio, non voleva andare via.
La sua vita si è spezzata quando in questura, invece del solito pezzo di
carta le hanno consegnato un decreto di espulsione e l’hanno rinchiusa nel
CIE. In Italia non le hanno permesso di vivere. Ha preferito morire.

Con questo gesto si conclude il “Day of action contro i CIE – la giornata
internazionale contro i centri di detenzione per immigrati promossa
dall’IFA – l’Internazionale di Federazioni Anarchiche.

Ma la resistenza continua… Ogni giorno. Dentro e fuori le gabbie.

A questo indirizzo comunicato e foto delle azioni del 14 novembre:
http://piemonte.indymedia.org/article/6367

I CIE, centri per i “senza carte” sono l’emblema tragico di una società
spezzata, dove lo scontro sociale ha ceduto il posto alla guerra tra
poveri. Una società senza memoria che non ricorda quando eravamo noi a
partire, noi considerati delinquenti, noi a finire nelle galere per
clandestini.
Tanti di quelli che oggi arrivano qui, da noi in Piemonte, scappano dalle
guerre e dalla miseria come i nostri bisnonni. Chi arriva ha negli occhi
il deserto, le galere libiche, il mare, i pescherecci che passano senza
fermarsi, i militari che vanno a caccia di uomini. Hanno negli occhi il
ricordo dei tanti lasciati per strada, morti senza tomba né umana pietà.
Pochi di loro trovano fortuna: per i più c’è lavoro nero, salari infimi,
paura, discriminazione, leggi razziste. Chi viene pescato finisce nei CIE
e di lì via, indietro, ancora verso l’inferno.
Le galere per immigrati senza carte le ha inventate un governo di centro
sinistra: i governi di centro destra si sono limitati a perfezionare la
gabbia.
Da sempre nei CIE – ieri CPT - soprusi, pestaggi, cure negate, sedativi
nel cibo sono pane quotidiano. La vita, la voglia di libertà, la
resistenza di migliaia di uomini e donne sono passate da queste galere per
poveri.

Negli ultimi mesi la protesta è dilagata. L’estensione a sei mesi del
periodo di trattenimento nei Centri ha fatto da detonatore.
Settimana dopo settimana rivolte, incendi, bocche cucite, lamette o pile
ingoiate, tentativi di fuga, scioperi della fame, gente che si fa tagli
profondi a braccia e gambe, suppellettili distrutte, materassi bruciati.
Poi, puntuale, la repressione: pestaggi, arresti, sputi, insulti. Quelli
che con più forza hanno lottato per la propria dignità e libertà sono
finiti sotto processo o hanno guadagnato un’espulsione rapida.

È una lunga, disperata, resistenza. Che continua. Anche in questi giorni.
Da Milano a Roma, Bari, Gradisca, Bologna, Modena, Trapani, Brindisi,
Crotone, Torino…
Nella nostra città la scorsa settimana due immigrati si sono tagliati e
hanno ingoiato ferri. Gli altri hanno gettato il cibo, hanno gridato,
rotto vetri.
Adel, che aveva denunciato i pestaggi subiti, è stato rimpatriato il 14
novembre.
Dai centri in tante notti si levano urla. Urla di rabbia e di dolore. Urla
nel silenzio. È tempo di rompere il silenzio.
Bisogna abbattere i muri, distruggere le gabbie.
Viviamo tempi grami, tempi feroci e folli, tempi di guerra. La guerra
contro i poveri e gli immigrati, la guerra contro chiunque si opponga alla
barbarie.
Piovono pietre e nessuno può stare al riparo in attesa di tempi migliori:
mettersi in mezzo è un’urgenza ineludibile.

Se non ora, quando? Se non io, chi per me?

Per info e contatti:
Resistere al razzismo
noracism at inventati.org
338 6594361