Lettera di una cooperatrice in Afghanistan a D'Alema e al suo mediatore unico, Gino Strada



Lettera di una cooperatrice in Afghanistan a D’Alema e al suo mediatore unico, Gino Strada

Al direttore - Dal novembre 2002 passo in Afghanistan
in media 4 mesi l’anno. Lavoro, nell’ambito
della cooperazione internazionale, a
contatto con un gruppo di donne, di cui alcune
mi chiamano sorella, vivo una quotidianità più
afghana che occidentale; ho girato 7 province,
raccolto racconti, letto il Corano, studiato un po’
di storia islamica, e sto ancora cominciando a
imparare. Mi affascina chi, dopo pochi giorni o
settimane, muovendosi tra un progetto umanitario
e un albergo presidiato, dà giudizi e spiega
un paese di cui ha capito tutto. Io non sono così
brava: quando accadono certi fatti non so esternare
opinioni, ho bisogno invece di spiegazioni.
Come ad esempio nel recente caso Mastrogiacomo.
Ero a Kabul quando è stato rapito e liberato,
e chiedo, a titolo esclusivamente personale:
- Perché un governo che deve occuparsi di decine
di milioni di cittadini, alcuni dei quali sparsi
per il mondo, si dedica a uno solo dei suoi figli,
in pericolo, mentre quello stesso giorno, come
ogni giorno, altre vite sono pure in pericolo
o si spengono nell’indifferenza, mentre urgenti
bisogni collettivi aspettano?
- Quel figlio speciale è stato rapito mentre faceva
il suo lavoro rispettando le norme di sicurezza
raccomandate a chiunque sia in Afghanistan?
Ha pensato a non mettere a rischio altre
vite, oltre alla sua? Ha misurato le possibili conseguenze
dei suoi atti? Sapeva che chi ha scelto
la via dell’imprudenza ha pagato a volte con la
morte? Perché i suoi colleghi non hanno seguito
quella strada pur avendo lo stesso diritto-dovere
di ‘informare’? Aveva un compito eroico tutto
suo, una missione speciale? Per questo meritava
di essere salvato pagando un simile prezzo?
- Ma qual è il prezzo pagato per Mastrogiacomo?
Oltre al tempo del governo e ai lunghi giorni
in cui un’ambasciata coraggiosa, sovraccaricata
e straordinariamente reattiva – che svolge
un sottile lavoro diplomatico mentre si è improvvisamente
trovata impastoiata dall’imperativo
di salvare un giornalista, quanto è costato
questo giornalista, in moneta, in delicati equilibri
infranti e in vite umane, già pagate o messe
a repentaglio dalla sua liberazione?
- Quanti talebani vale un italiano? Quanti
sforzi afghani e internazionali, pericoli e perdite
avute per catturarli, è lecito mettere sull’altro
piatto della bilancia con cui Mastrogiacomo è
stato pesato? E quanti autisti, interpreti, insomma
quanti afghani possono essere sacrificati
all’informazione?
- Mastrogiacomo non avrebbe potuto tra un
flash e l’altro, magari sottovoce, chiedere scusa?
- Se è vero che Gino Strada ha detto “Meglio i
talebani che un governo amico degli americani”,
vorrebbe spiegare a nome di chi parla? Perché la
grande maggioranza degli afghani – per quanto
mi riguarda tutti gli afghani che conosco, alcuni
dei quali rischiano lavorando con noi, sapendo
che nessuno pagherà mai per loro in talebani
– crede in una svolta democratica del paese,
non vuole il ritorno dei talebani né che i contingenti
militari lascino l’Afghanistan, e chiede:
“Come mai ci aiutate a costruire uno stato democratico,
fate ospedali, tribunali, scuole, e poi
per salvare uno di voi accettate il ricatto dei nemici
della democrazia?”.
- Perché il guru dell’Afghanistan, l’amorevole
soccorritore si scaglia contro i militari che
fanno il loro dovere anche portandolo ad abbracciare
Mastrogiacomo davanti a una macchina
fotografica? Perché mentre molte organizzazioni
umanitarie agiscono in silenzio, lasciando
la politica a chi compete, il leader di
una delle tante, di innegabile valore e dichiaratamente
neutrale, parla pubblicamente di politica
in modo non neutrale? Invece di alimentare
così fratture e tensioni che non servono a nessuno,
non potrebbe usare la sua esperienza per
aiutare a conciliare, a capire?
- Contenta solo per lui, auguro lunga vita a
Mastrogiacomo. Mentre se la gode penserà ogni
tanto che, grazie alle modalità e al prezzo della
sua liberazione, in Afghanistan il pericolo di rapimenti
è aumentato e la situazione è ancora un
po’ meno facile, non solo per gli italiani?
Sono tutt’altro che un’eroina, se fossi rapita
certo vorrei aiuto. Ma mi unisco qui a chi, lavorando
in Afghanistan, ha lasciato disposizioni
scritte di non trattare oltre limiti ragionevoli,
che escludono di pagare costi tali da creare problemi
a due governi, quello afghano e quello italiano.
Anche se la paura al momento mi spingesse a chiederlo.
Susanna Fioretti, via Web