Quante ambiguità sulla Turchia



Da www.lavoce.info


04-10-2005
Quante ambiguità sulla Turchia
Carlo Altomonte

Siamo finalmente arrivati al controverso punto di svolta nella geo-politica
dell’Europa: dal 3 ottobre, sotto presidenza di turno britannica, l’Unione
Europea avvia i negoziati per l’adesione della Turchia. Tale atto segna la
conclusione del "percorso di avvicinamento" all’Europa intrapreso dalla
Turchia ormai da qualche anno, e l’inizio di una nuova fase dei rapporti di
questo importante paese con l’Unione Europea. 
Eppure, dietro una data per molti versi storica, si celano ancora numerosi
interrogativi e molte, pericolose ambiguità, mai risolte dagli attori
istituzionali. Ambiguità che sarebbe invece corretto chiarire sin da subito,
per consentire un sereno giudizio sulla questione ai cittadini europei e
turchi. 
Tre criteri da rispettare
L’adesione all’Unione Europea comporta vari passaggi istituzionali: tutti i
paesi "europei" (inclusa la Turchia, in virtù dei suoi territori a nord
della Grecia) possono fare domanda di adesione, ma devono impegnarsi a
soddisfare tre criteri, noti come "criteri di Copenhagen", dal Consiglio
europeo che nel 1993 li mise a punto.
I primi due criteri, uno politico e uno economico, devono essere soddisfatti
dal paese candidato quale condizione necessaria per l’avvio formale dei
negoziati. Il criterio politico impone che il paese candidato debba essere
una democrazia dotata di istituzioni stabili, che rispetta i diritti umani e
le minoranze. Il criterio economico prevede che il paese candidato abbia una
economia di mercato funzionante, in grado di far fronte alle pressioni
competitive del mercato interno europeo. Una volta soddisfatti entrambi, a
insindacabile giudizio della Commissione europea, l’Unione decide
all’unanimità l’avvio di negoziati bilaterali volti al rispetto di un terzo
criterio per l’adesione, ossia l’incorporazione nel corpus legislativo del
paese candidato di tutte le norme giuridiche che disciplinano il
funzionamento del mercato unico in Europa (il cosiddetto acquis
communautaire). Chiuso questo processo, la cui durata non è definita, tutti
i membri dell’Unione Europea e il paese candidato devono formalmente
ratificare (con voto parlamentare o attraverso referendum popolari)
l’adesione del nuovo Stato.
Nell’ottobre 2004, la Commissione europea ha ritenuto che la Turchia, a
seguito delle riforme varate dal governo Erdogan, soddisfi i primi due
criteri, politico ed economico. Nel dicembre 2004 i capi di Stato e di
governo dell’Unione Europea hanno dunque deciso all’unanimità di avviare,
appunto da ottobre 2005, i negoziati per l’adesione della Turchia, affinché
il paese si avvii a incorporare al proprio interno tutta la legislazione in
vigore nell’Unione Europea.
Fin qui, si potrebbe argomentare, niente di strano: si tratta della stessa
procedura formalmente seguita negli scorsi anni per l’adesione all’Unione
Europea degli otto nuovi Stati dell’Europa centro-orientale più Malta e
Cipro, e attualmente in corso di definizione finale con Bulgaria, Romania e
Croazia (le ratifiche formali dovrebbero concludersi da qui a dodici mesi). 
E tuttavia sono in molti a ritenere che dal punto di vista sostanziale
l’adesione della Turchia sia qualcosa di diverso dagli altri allargamenti.
Ad esempio, si fa spesso notare come in termini geo-politici l’Unione
Europea allargata alla Turchia confinerà, tra gli altri, con Iran, Iraq e
Siria, con tutti i problemi che ciò comporta. Per quanto attiene agli
aspetti economici, l’Unione riceverà oltre 70 milioni di nuovi cittadini,
che però, a oggi, godono di un reddito pro-capite pari a meno del 20 per
cento di quello medio europeo, e così via.
Chiaramente, tali argomentazioni possono facilmente risentire delle opinioni
personali. Infatti, è molto facile contrastare gli esempi "problematici" con
altrettanti a favore dell’adesione della Turchia all’Uunione Europea: si
crea un fondamentale precedente di integrazione tra una società di matrice
cristiana e una islamica moderata. Con la Turchia (già membro Nato),
l’Unione entra a pieno titolo da protagonista in un’area geografica
strategica per i futuri equilibri mondiali. Le prospettive economiche di
sviluppo del mercato turco sono interessanti, e così via.
Il confronto tra paesi Peco e Turchia 
Eppure, che con la Turchia le cose stiano in maniera sostanzialmente diversa
dall’esperienza dell’allargamento ai paesi dell’Europa centro-orientale
(Peco) lo può dimostrare una semplice analisi oggettiva condotta sui primi
due criteri di Copenhagen. Tali criteri fanno riferimento a giudizi molto
generali (democrazia "stabile", economia di mercato "funzionante"), che
tuttavia possono essere quantificati attraverso una analisi statistica, e
dunque confrontati in termini più o meno "scientifici". 
Partendo da un insieme di variabili che misurano il grado di efficienza
delle istituzioni politiche ed economiche, (1) si può effettuare una analisi
fattoriale sulle stesse, ossia identificare due o tre indicatori che,
essendo legati a tutte le altre variabili, da soli rappresentano in larga
misura il criterio che si vuole analizzare. Ad esempio, facendo tale analisi
sui dati di Polonia e Romania, si trova che in larga parte il criterio
politico viene colto dalle variabili legate agli indicatori di corruzione
percepita e indice delle libertà civili, mentre il criterio economico è
colto in larga misura dalla composizione settoriale del prodotto interno
lordo (quanto lo stesso risulti più o meno ancorato al settore agricolo) e
dalla incidenza degli investimenti diretti esteri sul totale del Pil. (2)
Confrontando poi tali indicatori per la media dei Peco e per la Turchia nel
tempo, si può tentare di capire se, al momento dell’avvio dei negoziati di
adesione nel 1998, questi paesi erano più o meno nelle stesse condizioni
della Turchia di oggi. 
Come si può notare dai grafici, le differenze sono evidenti. Allo stato
attuale, per tutte le variabili considerate, la Turchia risulta molto più
indietro di quanto non fossero, nel 1998, i paesi dell’Europa
centro-orientale. Eppure, la Commissione europea nell’ottobre 2004 ha dato
luce verde all’avvio dei negoziati, cui ha fatto seguito, all’unanimità, la
decisione dei governi dei 25 Stati membri.
Si tratta di un clamoroso abbaglio? Probabilmente no, poiché, a leggere tra
le righe della decisione, appaiono differenze significative tra il caso
turco e quello dei paesi dell’Europa centro-orientale. 
La Commissione europea ha chiarito infatti che nel caso turco verranno
avviate sì le procedure, ma "i necessari preparativi per l’adesione
dureranno fino al prossimo decennio". Inoltre, la Commissione afferma che
"per sua stessa natura, si tratta di un processo il cui esito non può essere
determinato o garantito in anticipo". Insomma, si sa quando si inizia, ma
non si sa quando, e soprattutto se, si finisce. In alcuni settori chiave,
che di fatto reggono il mercato unico europeo, come le politiche strutturali
e l’agricoltura, la Commissione ritiene poi che "possono essere necessarie
intese specifiche", ossia che il mercato europeo sarà unico, ma con
l’eccezione specifica della Turchia. Infine, si ritiene che per la libera
circolazione dei lavoratori, una delle quattro libertà fondamentali del
mercato interno, "possono essere considerate misure di salvaguardia
permanenti", che la limitino dunque per sempre. 
Eppure, per ragioni di opportunità, da un lato continuiamo a sostenere con
gli amici turchi che stiamo negoziando la loro piena adesione all’Unione
Europea, chiedendo loro i sacrifici necessari per adattare la struttura
economico-giuridica del paese al nostro contesto legislativo. Dall’altro,
tranquillizziamo i nostri inquieti concittadini nascondendoci dietro formule
che, se il consenso politico dovesse mancare, possiamo all’occorrenza tirare
fuori dal cilindro.
Una sola domanda: come insegna John Maynard Keynes nel suo saggio "The
Economic Consequences of the Peace", a commento del Trattato di Versailles
del 1919, non è forse pericoloso gestire le relazioni tra Stati sovrani con
questa elevata dose di ambiguità?

(1) Variabili quali indici di libertà delle istituzioni, di corruzione, di
stabilità governativa, peso del settore pubblico, inflazione, crescita,
composizione settoriale del Pil, variabili di finanza pubblica, tasso di
cambio eccetera, sono tutte misurate dalle istituzioni internazionali (ad
esempio, World Bank ed Imf) in serie storica e per vari paesi.
(2) Gli indicatori scelti spiegano oltre l’80 per cento della varianza delle
variabili politiche (dodici variabili iniziali) e di quelle economiche
(venti variabili iniziali). Ad esempio, tali indicatori mostrano la
sostanziale differenza tra Polonia e Romania al 1998, anno in cui la
Commissione certificò l’avvenuto rispetto dei primi due criteri di
Copenhagen da parte della Polonia, ma non della Romania. Maggiori dettagli
sono disponibili su richiesta.