ONG: THE PARTY IS OVER.



Con il sequestro della cooperante italiana a Kabul è ormai arrivato il momento, anche se con estremo ritardo, per il mondo delle ONG di interrogarsi e riflettere seriamente sulla propria ragion d’essere e sul fatto che da qualche anno il connubio tra cooperazione ed eserciti ha snaturato l’anima delle ONG e soprattutto di chi ci lavora.

Ma non sono affatto sicuro che questa dura autoanalisi/autocritica sarà fatta dal mondo della cooperazione, che ormai è del tutto autoreferenziale nell’ingigantire risultati sempre più modesti e inefficaci ma ben attento a ingigantire davvero i salari di chi ci lavora.

 

Ormai si è completamente perso quello spirito un po’ pionieristico e naif di chi lavorava nelle ONG negli anni ’80 e nei primi anni ’90. Per inseguire i fondi e rispondere ai requisiti e imposizioni dei donors l’anima di chi lavora nella cooperazione si è inevitabilmente corrotta in modo irreversibile.

 

Attratti da salari spropositati, degni di un dirigente di azienda, ci sono persone che passano con estrema tranquillità dal lavoro in una multinazionale a quello in una ONG; spesso poi anche le stesse ONG sono delle vere e proprie multinazionali, come CARE per esempio, ma la lista è lunghissima.

La responsabilità di ciò però non è solo di chi manda il proprio curriculum nella speranza di trovare lavoro ma soprattutto delle stesse ONG che cercano persone sempre più specializzate, con esperienze pluriennali e con caratteristiche tipiche di un dirigente d’azienda, utilizzando metodi aziendalisti nella selezione del personale.

Quindi è naturale la conseguenza di creare delle vere e proprie “aziende umanitarie” il cui staff internazionale è strapagato così come proporzionalmente quello locale, creando in loco squilibri e storture nel mondo del lavoro e gelosie tra chi lavora in una ONG internazionale e chi no.

 

Le persone più preparate sono “arruolate” e requisite dalle ONG togliendole dal resto del mercato del lavoro e pagandole stipendi che aziende, ma anche banche locali, neanche si sognano di pagare.

 

Mi ricordo che in Cambogia anni fa, durante dei colloqui per cercare un mio nuovo assistente, alla mia domanda sul perché volevano lavorare in una ONG, quasi sempre mi rispondevano candidamente che gli stipendi pagati sono molto più alti dello stipendio medio pagato da imprese locali.

 

Una “corruzione mentale” praticata ormai dalla stragrande maggioranza delle ONG internazionali.

 

Se poi a tutto ciò aggiungiamo le crescenti e preoccupanti sinergie e collaborazioni tra ONG ed Eserciti in atto nei Paesi appena usciti da una guerra, possiamo dedurre che ormai di “non governativo” non c’è più traccia e che le ONG premiate con i fondi sono diventate il braccio umanitario della politica estera del proprio Paese; ma di una politica di guerra umanitaria e neocoloniale.

 

Prima che sia troppo tardi, ma forse già lo è, le ONG “illuminate” devono interrogarsi sul proprio futuro e su come cercare di invertire questa devastante marcia verso “l’aziendalizzazione” e militarizzazione della cooperazione.

 

Bisogna dire no ai requisiti per ottenere i fondi dai donors istituzionali e privati e soprattutto cercare nuove forme per trovare fondi; e avere l’umiltà di ridurre i propri obiettivi, cioè fare attività più “piccole”, concentrate e soprattutto cominciare a tagliare drasticamente i salari dei cooperanti.

Ma anche il metodo per selezionare il personale deve cambiare, finendola una volta per tutte con i criteri aziendalisti.

 

Certo, non è facile rinunciare a fondi milionari (in euro); ma così facendo saranno più facilmente identificabili e isolabili tutte quelle ONG aziendaliste e militariste i cui cooperanti saranno sempre più soggetti a rapimenti e uccisioni, come del resto già lo sono i contractors e i soldati.

Perché ormai si fa sempre più fatica a distinguere tra cooperanti, contractors e soldati.


Enrico Sabatino